

Zu – Carboniferous
by Simone Rossetti
Mediocrità, banalità e volgarità (mediatica), eccovi servita la non-cultura-profitto di questo disastrato e disilluso paese, l’unica (sembra) cerebro-sostenibile e possibile fatta di emozioni plastificate, ricchi premi e cotillons, liberi di poter non scegliere e liberi da una qualsiasi forma di pensiero che non sia più lunga della durata approssimativa di un cambio di canale televisivo. Quello che ci fa ancora ben sperare è che sotto questo desolante ed asfissiante paesaggio esiste un luogo-altro fatto di persone, gruppi o progetti musicali che fanno della loro musica una libera espressione artistica, una ricerca come forma d’arte, un incontro fatto di passione, studio, collaborazioni, e noi siamo qui anche per raccontarvi di questo luogo-altro, per farvi intravedere una possibile via di fuga, per farvi intuire un bisogno o semplicemente sentire la mancanza di un tassello. Gli Zu sono questo (parliamo degli Zu ma ovviamente sono moltissimi i gruppi che sopravvivono grazie ad un seguito, più o meno vasto,di nicchia); per approcciarsi a questa musica ci sono due modi, il primo è andare sulla fiducia, spararsela a tutto volume (ed è un buon sistema) e attendere una reazione che potrebbe essere sia di totale rigetto che di incondizionato amore, la seconda è avere un minimo di informazioni in modo da procedere all’ascolto, non dico preparati ma con la giusta consapevolezza e conoscenza (in altri popoli esiste una parola “importante”, si chiama cultura musicale, da noi assente). La musica degli Zu, più facile ascoltarla che scriverne, prendete il lato più free jazz e destrutturato di Ornette Coleman, una sezione ritmica fra il tribale ed un hardcore-metal, un’attitudine alla ricerca e sperimentazione come forma espressiva vitale, miscelate il tutto ed infine agitate ben bene prima dell’uso, quello che ascolterete è questo magma, pesante, granitico, svincolato da qualsiasi elemento o regola (all’apparenza), materia pura e malleabile, quella montagna che ci sovrasta maestosa ed immobile, il vento sferzante, il suo cielo plumbeo ed incombente. Gli Zu si formano nel 1997 (in quel di Roma) per volontà di Jacopo Battaglia (batteria), Massimo Pupillo (basso) e Luca Mai (sax baritono), comunque una formazione aperta dove per questo album si aggregheranno Mike Patton (voce ed effetti), King Buzzo (chitarra), Giulio Ragno Favero (chitarra) e Alessandro Pacho Rossi (percussioni); considerato dopo Igneo del 2002 il loro capolavoro che li porterà all’attenzione di un pubblico più vasto soprattutto nel resto del mondo (chissà perchè). Carboniferous si apre con Ostia, totemica, sezione ritmica che non lascia riprendere fiato, è un idea che prende forma e si materializza in energia e suoni, totalmente libera e fiera, segue Chthonian con la partecipazione di King Buzzo alla chitarra (Melvins) e si sente nell’incedere lento ed a tratti “schizoide” di una composizione cupa ed opprimente mentre il sax di Mai asseconda questo implodere su se stessa creando (o abbattendo) nuovi spettri sonori, è il momento di Carbon, qui è il baritono a scandire la metrica, ossessiva, granitica, quasi un proto doom-jazz, le successive Beata Viscera e Erinys spingono più sul versante free-jazz ma non aspettatevi una classica ritmica jazz, le percussioni pestano sangue mentre il sax, un misto fra Coleman e Coltrane brucia di vita propria, impossibile resistergli per bellezza e per “violenza”. Soulympics porta il contributo alla voce ed effetti vari di Mike Patton, un suono più pesante e disturbante che a tratti sembra evolvere in una deforme “disco” anni ’70, c’è Axion vi farà sobbalzare sulla sedia più volte, cambi di ritmo potenti e maestosi per poi trovare la sua dimensione in un malinconico e riflessivo giro di sax che si ripeterà all’unisono in tutta la sua semplicità e naturalezza; Mimosa Hostilis è incessante e frenetica, cassa dritta e poche variazioni, Obsidian brano che più si avvicina stilisticamente ad una forma di “rock classico” con aperture melodiche eteree e dissonanti mentre a chiudere spettarà ad Orc più sperimentale ed ambient, personalmente la trovo un po’ slegata dal contesto ma possibile sia un mio limite. Termina così questo Carboniferous e terminiamo noi, consentiteci solo un’ultima considerazione, questa musica ha una qualità, qualcosa che non si esaurisce dopo un ascolto o cento ascolti, una qualità che non troverete in un supermercato nè nelle alte classifiche patinate, è viva, forse non la riascolterete tutti i giorni, magari passeranno mesi o anni, ma sapere che è lì, che c’è, è qualcosa di rassicurante e stimolante e vi assicuriamo, sarà sempre come la prima volta. Da Roots! è tutto e come sempre buon ascolto (qui o qui).
Venus In Furs – Platonic Love And Other Stories
by Simone Rossetti
Album dimenticati dal tracorrere del tempo ed anche per una loro stessa intrinseca natura, non stiamo parlando di album più o meno blasonati che comunque hanno la forza di tramandare una loro storia ma di tutti quegli album minori o figli di un dio minore di cui nessuno avrà ricordo od interesse, piccoli capolavori destinati all’oblio già dalla loro pubblicazione, figli di un tempo forse mai esistito. Platonic Love è uno di questi e lo è per tanti motivi; un album di “nicchia della nicchia”, non sappiamo quante copie possa aver venduto, 500? Forse 1000?? E sarebbe già molto; dopo un primo EP Extended Play del 1983 e seguente scioglimento i Venus In Furs si riformeranno l’anno successivo come duo composto da Skot Lucy e Times (originari di Brighton), da qui alla pubblicazione di Platonic Love il passo sarà breve, siamo sul finire del 1984 al tramonto del post-punk e nel pieno della new-wave in tutte le sue diramazioni. Si ascolta ed è come immergersi in un passato in bianco e nero, notturno, sognante, solo a tratti leggermente ostico ma sempre di grande intensità, una dark-wave molto “aperta” con chitarre in totale feedback ma velate di quella morbidezza tipica della dream-pop, ritmica basata su pochi movimenti fissi e malinconici arrangiamenti di tastiere (solo a tratti si farà sentire più forte un’influenza post-punk che sfocerà in territori sperimentali). Fallen Statues apre l’album, un pezzo strumentale a dettare le coordinate stilistico-esistenziali di questo duo, a seguire That First Wild Kiss, ritmica marziale, la voce calda e bassa di Times, belle ed ariose aperture melodiche; più sognante ed eterea la successiva Majordomo con synth e tastiere a ricamare dolci melodie autunnali fra cascate di feedback (siamo molto vicini al suono dei Jesus And Mary Chain di Psychocandy che però uscirà solo l’anno successivo); si cambia registro con Entràcte / Zurich 1925 più dura e scheletrica nelle sue forme dissonanti, anche la voce di Times sempre confidenziale si farà più fredda e distaccata, si muove parallelamente la bellissima His Master’s Voice proiettata in una Europa in piena decadenza, un waltzer notturno sbilenco e traballante di rara bellezza (e fidatevi per una volta). Un piccolo gioiello dark-wave è la titletrack Platonic Love, lenta e sensuale, tastiere sognanti ed una ritmica tipicamente post-punk, a seguire la cupissima Achilles’ Brain dalle sonorità metalliche e disturbanti, ed infine il morbido dream-pop di Snowscape e la più caustica e Joy Divisionana The Challenge con l’inserimento delle malinconiche note di un violino a ricamarne la melodia. Tutto qui, se vi aspettate altro non c’è, anche dalla registrazione si percepisce appartenere ad un altro contesto storico-musicale quando forse contava di più la musica e le sue emozioni che il pompare il suono o renderlo più “figo” (non è una certezza ma solo una riflessione); noi ve lo consigliamo per quel che è, un bell’album dark-wave (ma concettualmente un passo avanti) che non è sopravvissuto allo scorrere del tempo né al suo presente, unica magra consolazione è che se non altro siamo qui anche per questo, a ricordarci e ricordarvi che sono esistiti ed esisteranno sempre albums come questo Platonic Love And Other Stories. E da Roots! è tutto, buon ascolto (qui).