Roots! n.244 agosto 2021 Thelonious Monk

Thelonious Monk-Thelonious Alone In San Francisco

Thelonious Monk-Thelonious Alone In San Francisco 

by Simone Rossetti

Nessuno suonava il piano come lui e nessuno lo avrebbe più suonato; Thelonious Monk, nato in quel di Rocky Mount (North Carolina) il 10 ottobre del 1917, compositore e pianista jazz direbbero i soliti molti per non dire nulla. Dalla personalità difficile, riservata, non “conforme”, questo era Thelonious Monk e questa era la sua musica, prendere o lasciare. Suonò con tutti i più grandi, dall’orchestra di Cootie Williams a Coleman Hawkins, Milt Jackson, Kenny Dorham, Art Blakey, Charlie Parker, Dizzy Gillespie, Sonny Rollins, fino a Miles Davis ma evidentemente non bastava, sottostimato soprattutto dalla critica musicale dell’epoca e forse ancora oggi non ben compreso; Monk apparteneva ad un altro pianeta, solo pochi, in seguito, si avvicineranno alla sua musica, uno fra questi il grande sassofonista soprano Steve Lacy. Non ci piace fare raffronti e non li faremo nemmeno in questo caso, stiamo parlando di tecnica pianistica, di approccio, di stile; Monk era diverso da tutti gli altri (e lo è ancora), era “altrove”, un altrove difficilmente comprensibile, lui non “suonava” le note, quei tasti bianchi e neri del piano, le “zappava”, le zappava come mio nonno poteva zappare la terra, duramente e senza troppe finezze ma con profondo rispetto ed amore. Questa era la sua musica, sbilenca, traballante, altalenante, con intervalli e pause “casuali”, improvvise ripartenze, accordi, melodie, intuizioni lasciate “al caso”, musica dissonante, a tratti quasi “scordata”, profondamente jazz ma lontanissima dal jazz più ortodosso ed anche oltre (pensate allo swing, indispensabile sia che si parli delle più classiche orchestre del passato che di free jazz ma che nella musica di Monk sembra mancare, sembra). Thelonious Alone In San Francisco fu registrato e pubblicato per la Riverside Records sul finire del 1959 al termine di due sessioni tenutesi alla Fugazi Hall di San Francisco il 21 e 22 ottobre dello stesso anno; potremmo parlarvi di altri album, sempre di Monk, ben più famosi e conosciuti (Brilliant Corners, Misterioso, Thelonious Monk With John Coltrane solo per citarne alcuni) ), invece no ed il perchè lo scoprirete a breve; primo ed unico album registrato in studio da Monk in totale solitudine, una testimonianza ed un lascito enormi, anche se solo per pochi; questa è la sua musica, la sua arte, il suo essere “diverso”, alieno, senza alcuna pretesa avanguardistica o sperimentale (cosa della quale non poteva fregargliene di meno), c’è semplicemente la sua musica, il suo sentirla e viverla. Saranno in molti fra studiosi, critici ed esperti in materia a cercare di spiegarne una logica, dare un senso a questa musica, comprenderla ed “uniformarla”, lasciate perdere, Monk era al di fuori da queste dinamiche, che poi la sua musica possa piacere o meno è un altro discorso ed è pur sempre una questione di gusti personali e della casualità del momento. “Uscirà” dalle scene verso la metà degli anni ’70 rifugiandosi a Weehawken, New Jersey, presso l’abitazione di una sua amica alla quale era molto legato, la baronessa Pannonica De Koenigswarter, isolandosi dal resto del mondo in un mutismo quasi assoluto, lascerà questa terra il 17 febbraio del 1982. Una discografia immensa e di tutto rispetto che vi invitiamo ad approfondire a prescindere, noi per il momento ci fermiamo qui, a questo attimo, è il 1959, il jazz guardava oltre ma anche al passato, Monk guardava a se stesso ed a quelle note che si divertivano a nascondersi sotto la tastiera del piano; che dire di Ruby My Dear, pezzo dolce e straniante che sembra procedere a stento fra splendide intuizioni melodico-armoniche e pause solo accennate, “strano” si direbbe eppure suona e scorre con delicatezza ed in totale armonia; Round Lights è attraversata da veloci scale cromatiche e note sospese, non c’è alcuna fretta, Monk suona e tutto sembra nascere nel momento; Heverything Happness To Me è un altro piccolo capolavoro dove ogni singola nota racconta una storia, segue un suo respiro e nient’altro; “zappano” sulla tastiera le dita di Monk ma lo fanno con una grazia e lucidità che non trovano (e ritroveranno) eguali. C’è la blueseggiante Bluehawk, la milione di anni luce avanti Remember, la più seria ed introspettiva Reflection dal tema scomposto che verrà ripreso ciclicamente secondo pura intuizione e la malinconica Pannonica (verosimilmente una dedica all’amica), classe immensa, un tema di poche note, una melodia scarna, spiazzante, un continuo saliscendi armonico-melodico eppure il tema sembra essere sempre lì, non spostarsi di un millimetro, tanta classe; per concludere vi lasciamo alle note di  Blue Monk, traccia posta in apertura e forse anche la più “accessibile”, se ascoltate bene sentirete il “battere” del piede di Monk a scandirne il tempo, quel tempo indefinito che c’è dietro questa musica, quel pulsare vitale che si chiama arte; nessuno suonava il piano come lui e nessuno lo avrebbe più suonato. Da Roots! è tutto e come sempre buon ascolto (qui o qui).           

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