Roots! n.5 ottobre 2020 Wishbone Ash The Housemartins

The Housemartins-Now That's What I Call Quite Good
Wishbone Ash-Argus

The Housemartins – Now That’s What I Call Quite Good

by Simone Rossetti

Non mi sono mai posto un problema di “genere” semmai di musica “fatta bene” (opinione spero condivisa anche dalla redazione), non si tratta di una considerazione soggettiva fine a se stessa ma della necessità di trascendere dal semplice “mi piace o non mi piace”, parliamo di emozioni che possono essere sia negative che positive, l’importante è che quello che ascoltiamo trasmetta un qualcosa che vada oltre la semplice apatia di ascolto usa e getta, poi può anche giustamente non piacere, ma resta comunque una valutazione soggettiva, secondaria rispetto al valore stesso dell’opera. Perchè recensire un album degli Housemartins, la loro musica non è né difficile né complessa, non ha niente di sperimentale o ambizioso od una qualsivoglia rivendicazione sociale (solo apparentemente), questa è musica che fa della “semplicità” e della “gioia” il suo essere, ma non lasciatevi ingannare, nella sua “leggerezza” è musica di spessore e qualità, ha battito, respiro e passione, quindi, perchè no. C’è anche da dire che questo Now That’s What I Call Quite Good non è nemmeno un album vero e proprio ma come si direbbe oggi, una “compilescion” (orrore!!), lo sappiamo ma niente panico, è una raccolta talmente varia (tra B-side, Single version, Outtake, Peel session e cover) che non sentirete la mancanza di altro. Nel rispetto di questa “leggerezza” eviteremo di fare un’analisi della scaletta brano per brano (24 tracce per un doppio album e la cosa diventerebbe noiosa) ma la prenderemo molto larga spaziando casualmente qua e là senza un ordine predefinito ed in totale libertà d’intenti. Si, abbiamo capito, ma come suona vi (e ci) starete giustamente chiedendo? Allora, immaginatevi per un attimo di trovarvi all’interno di una chiesa evangelica metodista nel profondo sud della Louisiana, sullo sfondo una voce accompagnata da poche note di piano sostenute ma intense, al loro culmine emotivo subentrerà potente ed improvvisa la sezione ritmica creando un chorus di rara bellezza che vi spazzolerà i capelli per il resto della giornata, questa è I’ll Be Your Shelter, un jingle-rock intriso di gospel e soul nella migliore tradizione “nera”. Gli Housemartins provenivano da Hull (nord Inghilterra, Paul Heaton alla voce e Stan Cullimore alla chitarra ai quali si aggiunsero Norman Cook al basso e Hugh Whitaker e successivamente Dave Heminngway alla batteria), ebbero un discreto successo grazie ad una cover di Caravan Of  Love degli Isley Brothers, un brano “a cappella” stile doo-wop che scalò le classifiche mondiali in un ormai lontano 1986 e che troverete anche in questa “raccolta”, notevole per lo stile di rivisitazione ma non il pezzo migliore; se volete restare su un sound più tipicamente britannico vi consigliamo The People Who Grinned Themselves To Death con uno splendido intro di chitarra che darà il ritmo a tutto il brano, frizzante e contagiosa con l’ensemble di fiati ad arricchire e dare incisività al tutto. Altro brano che unisce soronità british a cori di scuola doo-wop è la più riflessiva Think For A Minute con un solo di tromba che crea un bel contrappunto melodico, poi troviamo la brillante e scanzonata Sheep o la più radiofonica Five Get Over Excited e la “salutare” (per l’umore) Everyday’s The Same ma saranno le note di Build a consolarci in una piovosa giornata autunnale, splendidamente perfetta, un crescendo di cori e contrappunti vocali che si vorrebbe non finissero mai; più acustica e intima Step Outside ricamata su tenui arpeggi di chitarra accompagnati dalla voce perfetta di Paul Heaton, poi c’è la bellissima Flag Day con un crescendo nel refrain dalle sfumature quasi drammatiche ma non basta, non può bastare ed allora ecco The Light Is Always Green quel brano che che la “vita non può permettersi tutti i giorni” ma solo il sapere che esiste è un bel conforto ed infine che dire della splendida ed ancor più “black” Lean On Me per solo piano e voce (che questa volta vi spazzolerà non solo i capelli ma anche l’anima). Basta, lasciamo a voi la curiosità di scoprire il resto, perchè se è vero che la musica richiede una certa predisposizione d’animo e di umore è anche vero che ci vuole comunque una buona dose di coraggio per scoprire piccoli capolavori, sia che si tratti di black-metal o hardcore o come in questo caso di musica più “orecchiabile”. Ora tocca a voi, da Roots è tutto e come sempre buon ascolto (qui).

 

Wishbone Ash-Argus 

by Simone Rossetti

Fermi un attimo, prima di procedere all’ascolto di questo lavoro soffermatevi sull’artwork, è una fra le più belle di sempre e forse mai realizzate; trascende da una qualsiasi logica umana di tempo e spazio, c’è solo questo guardiano-soldato con indosso un elmo ed il suo mantello rosso, immobile, di fronte a lui un orizzonte di foreste più scure e verdi vallate irradiate dalla prima luce del mattino; mi piace immaginare che questo soldato, ovunque si trovi, ancora oggi sia fermo lì, oltre il trascorrere del tempo, a guardia di un mondo comunque destinato alla rovina; c’è un che di profonda malinconia ed ineluttabilità  in questa immagine, un destino che ci accomuna tutti, come singoli e come genere umano e forse siamo proprio come quel soldato di guardia. Gli Wishbone Ash gruppo britannico con influenze folk-prog e hard-rock si formò sul finire delgi anni ’60 questo Argus (Decca / MCA) del 1972 è il loro terzo album in studio, non proprio un concept-album ma per la sruttura e composizione dei brani (e testi) si potrebbe interpretarlo anche così. Argus (leggetevi pure la sua storia, tristissima e bellissima come tutte le storie della mitologia greca) è un album che si mostra in tutta la sua consapevolezza muovendosi tra sonorità acustiche più folk ed altre elettriche di matrice hard-rock prog ma senza mai perdere di vista un filo conduttore malinconico-epico (una curiosità, un album che ha un suono cristallino e limpido come raramente ci è capitato di ascoltare e siamo nel 1972). Time Was apre l’album, più di 9 minuti suddivisi in due parti, la prima introdotta da un dolce arpeggio di chitarra acustica e dalle voci stupendamente armonizzate e di suggestivo phatos poi un cambio di ritmo con una seconda parte che riprenderà la prima ma in uno stile più tipicamente hard-rock con le oramai famose “chitarre gemelle” che saranno di ispirazione per molti gruppi a venire, grande esperienza e tecnica; a seguire Sometime World che inizia come una classica ballata hard-rock intensa e malinconica, una melodia che vi farà drizzare i peli sulle braccia per poi accelerare spingendo le chitarre verso l’infinito e oltre; Blowin’ Free, qui si sentono distintamente le due sei corde che faranno scuola, altro grande brano è il successivo The King Will Come, intro marziale ed epico incentrato sulle armonie vocali e qui riusciamo quasi a percepire il respiro di quel soldato impresso nell’artwork, c’è tutta la sua solitudine e speranza (forse vana) di poter un giorno tornare a casa ma per ora è questo il suo unico compito, sorvegliare l’ultimo lembo di terra, da cosa? Da chi? Segue Leaf And Stream aperta da un dolce arpeggio di acustica sognante ed etereo mentre in sottofondo sembra quasi di ascoltare i pensieri in solitudine del soldato di guardia, testo bellissimo “Alone i’ve walked this path for many years, listened to the wind that calls my name, the weeping trees of yesterday look so sad, await your breath of spring again”, le ultime due tracce che chiuderanno l’album, Warrior e Throw Down The Sword, (eccellenti per maestria e tecnica) si muoveranno più su territori prog alternando passaggi più veloci ad improvvisi cambi di tempo con refrain sognanti ed epici. Un grande album che merita sicuramente di essere scoperto o riscoperto, forse lontanissimo rispetto alle sonorità di oggi (magari ce ne fossero “oggi” di album così, non è vero, a ciascuno il suo tempo) ma sempre attuale, perchè nulla è cambiato, quel soldato è sempre lì, ieri, come oggi, come domani, e forse non ha alcun confine da difendere ma un intero mondo, l’unico che abbiamo; da Roots! è tutto e come sempre buon ascolto (qui).

 

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