
Sonic Youth – Daydream Nation
by Simone Rossetti
Un monolite oscuro, un album di riferimento per tutto l’alternative rock ma soprattutto ultimo lascito di quel movimento no-wave, di vita breve ma intensa, che nacque a New York sul finire degli anni ‘70 e che poi si diffuse nel resto degli Stati Uniti…una sottocultura punk ma vibrante di vita propria nella quale confluivano esperienze e creatività diverse, dal cinema alla musica, dalla pittura alla comunicazione, dal punk al post-punk, al noise, all’hardcore, alla destrutturazione compositiva, a quella voglia di osare ed andare oltre; poi tutto finì, come sempre accade e forse perché così deve essere ma quello che resta è senza dubbio uno stato dell’Arte che la storia e le sue effimere mode non cancelleranno. Daydream Nation, quinto e doppio album per i newyorkesi Sonic Youth (Thurston Moore alla chitarra, voce e piano, Kim Gordon al basso, voce e chitarra, Lee Ranaldo alla chitarra e voce e Steve Shelley alla batteria) pubblicato nel 1988 dopo una lunga gestazione e forse di intenti non proprio chiari ma il cui risultato non lascia adito a dubbi. Musicisti veri, nel senso di studio e consapevolezza nei propri mezzi, geniali come intuizione ed approccio alla composizione, da qui in poi il futuro sarà loro ma come spesso accade perdendo molto in quanto ad urgenza creativa, noi comunque ci fermiamo qui, a questo Daydream Nation ed al suo essere “capolavoro”. Una considerazione esclusivamente personale riguarda la voce di Kim Gordon, fragile, sensuale, una sirena degli abissi metropolitani, unica e di devastante bellezza; detto questo passiamo alla traccia che apre l’album, Teen Age Riot, partenza soffusa su intro di chitarra non usuale, in sottofondo la voce sussurrata di Kim, poi il suono si increspa, si indurisce, il ritmo diventa più sostenuto e parte il brano vero e proprio, un misto fra un pulsare punk e refrain più “pop”, a seguire Silver Rocket e già si cambia passo, più scura, pesa, ritmo a cassa dritta che sfocia in un muro sonico di distorsioni elettriche puramente noise per poi riprendere la cadenza iniziale del brano, c’è The Sprawl un piccolo capolavoro con la voce della Gordon, ci si muove tra accelerazioni e morbide derive post-punk, la chitarra di Lee Ranaldo (vera mente e corde di questo suono) tesse delle trame armoniche tra il sognante ed il noise più alienato, è il ritratto di un’America e di una sua “epica” ormai alla fine. E si prosegue con ‘Cross The Breeze ad aprire il lato B, inizio sognante ma è solo un momento poi si pesta duro, a testa bassa, fino a quando le sue melodie si sdipaneranno in tutta la loro bellezza (anche questa volta è Lei a regalarci la sua voce), Eric’s Trip più psichedelica e rock ma leggermente estranea al contesto di questo lavoro, Total Trash chiude il lato B, ha un buon ritmo e belle armonizzazioni se non fosse che è cantata da Moore e non ci prende come dovrebbe ma è senza dubbio un bel pezzo dove le chitarre si scontrano ed interscambiano a vicenda, una deflagrazione di puro rumorismo con la batteria a sostenere il tutto; capitolo a parte per Hey Joni (lato A del secondo vinile) ben interpretata da Moore e con intuizioni cromatiche tra il noise e un “diversamente pop”, cioè non convenzionale, Providence è il brano più tipicamente sperimentale, molto “atmosferico” e ricco di phatos, a seguire la crepuscolare Candle con le sue bellissime tessiture elettriche ed un ritornello indie-pop (quando ancora aveva un senso); da qui in poi le tracce si sposteranno su sonorità più dure e noise, l’alienante Rain King il piccolo capolavoro malinconico tra sfuriate punk e noise di Kissability (indovinate un pò chi è alla voce?) per concludere con il crescendo del trittico finale, The Wonder, Hyperstation, e Eliminator,Jr, in particolare quest’ultima con il suo incedere punk noise da mozzare il fiato, un vero e proprio inno desolante e glaciale con alla voce sempre la Gordon, una musa notturna di una metropoli devastata e destrutturata. Daydream Nation è un album che anche se uscisse domani nessuno avvertirebbe questo trascorrere del tempo ed è un pregio che possono vantare solo pochi album, poi si dirà che i tempi sono cambiati, che New York non è più la stessa, che le aspettative, anche musicali, oggi sono altro (e ben più misere) ma c’è qualcosa di contorto in tutto questo (quella realtà di “plastica” e “liquida” che vogliono raccontarci)….possiamo però dirvi una cosa, se avete la fortuna di avvicinarvi a questo album per la prima volta consideratevi fortunati ed un pò vi invidiamo….perché è davvero come fosse “la prima volta”. Da Roots! è tutto e come sempre buon ascolto (qui o qui).