
Saint Vitus – Born Too Late
(1986, SST Records)
by Simone Rossetti
Un doom metal così oscuro da definire (mentalmente e fisicamente) quel limite estremo oltre il quale non sarà possibile spingersi (ed oltre il quale non oseranno spingersi nemmno Loro). Stiamo parlando dei Saint Vitus, band Losangeliana formatasi sul finire degli anni ’70 e di questo loro terzo album in studio risalente al 1986 (anno di “transizione” fra gli ultimi scampoli new wave, l’hard rock degli anni ’70 oramai preistoria, l’esplosione del grunge dietro l’angolo, i Black Sabbath oramai persi verso altro); non c’è alcuna logica in questo e forse non deve esserci, “le cose accadono” verrebbe da dire molto banalmente, forse….fatto sta che dopo i due primi album (Saint Vitus del 1984 e Hallow’s Victim dell’85) all’allora vocalist Scott Reagers subentrerà Scott “Wino” Weinrich (già negli Obsessed) da una timbrica sicuramente diversa, più duttile ma per il resto la formazione sarebbe rimasta la stessa, Dave Chandler alla chitarra, Mark Adams al basso e Armando Acosta alla batteria, quindi? Quindi boh!, questo Born Too Late c’è e basta, non solo, c’è come può esserci e sempre ci sarà la cima dell’Himalaya, il deserto del Sahara, la vastità di un oceano, le pietre di Stonehnge, l’Unicorno, quel soldato avvolto nel suo rosso mantello (dall’artwork di Argus degli Wishbone Ash); “si mette su e basta”, il vinile (6 tracce, successivamente ristampato in CD nel 1990 con l’aggiunta di tre tracce dal loro EP Thirsty And Miserable del 1987). Lasciate perdere qualsiasi confronto/paragone con i primi Black Sabbath (più doom-hard rock) i Saint Vitus con questo lavoro si spingeranno ben oltre, un doom tombale e malefico nero come la notte più eterna (l’iniziale Born Too Late, pesante, solenne e funerea come merita una discesa negli inferi), l’incedere occulto di Clear Windowpane ad anticipare una totemica Dying Inside che forse all’inizio vi dirà poco ma aspettate il sopraggiungere del refrain in tutta la sua maglificenza e disperazione (e che solo di chitarra, immenso), è andata, siamo perduti (e non ce ne pentiamo). Lato B (non quello da spiaggia, stiamo parlando sempre di vinile) che si aprirà con una più “solare” H.A.A.G. (Hell Ain’t A Game) pezzo forse più hard rock ma con una seconda parte da scarnificare le budella, ci penserà The Lost Feeling a rallentare i ritmi vitali fin quasi ad un nulla, pochi giri di basso pesi come pietra da lapide ed infine a chiudere una The War Starter che più Sabbathiana non si potrebbe, quel sacro ed ostinato fuoco che sotto le ceneri di una più appagante “modernità e mondanità” resterà tizzone ardente. Album sconsigliatissimo (ma non è mai detto) a chi ama sponsorizzate spiagge da cartolina o per gli amanti di una montagna brutalmente globalizzata, consigliato (ma non spetta a noi dirlo) a chi preferisce uno stesso ma “altro”; se è un capolavoro? No ma per dove saprà trascinarvi sì. Da Roots! è tutto e come sempre buon ascolto (qui o qui).