

Bruce Springsteen – Nebraska
(1982, CBS Records)
by Simone Rossetti
Nebraska è un viaggio ma sopratutto è uno stato mentale, se avete visto Paris, Texas di Wim Wenders la cosa vi sarà familiare, per quel che ne sappiamo noi il Nebraska potrebbe anche non esistere, per contro esistono altri 10, 100, 1000 Nebraska (a ciascuno il suo) ma sono queste storie e questa musica a renderlo/i un posto reale altrimenti inesistente, un non luogo, un punto sperduto chissà dove là da qualche parte; un viaggio che inizia dalla cover dell’album, una fotografia in bianco e nero scattata dall’interno di un’auto dalla quale si scorge il panorama circostante, un orizzonte scuro a perdita d’occhio sotto un cielo plumbeo che sembra pesare, ineluttabile, come piombo. Chitarra, armonica e voce, nient’altro, dieci tracce registrate su un semplice nastro e che resteranno tali. Siamo lontanissimi dall’enfasi di Born To Run o di The River, Bruce si “ferma” e ci racconta questa America usando poche note, pochi accordi, molta sofferenza; sono tutti in viaggio nelle storie che narrano questo Nebraska, lo stesso Bruce, ma sono viaggi che si trascinano dietro dolore e mancanze, viaggi a ritroso e viaggi verso un qualcosa di diverso, l’unico possibile. Nebraska è folk nella più classica tradizione popolare americana (Woody Guthrie) ma è anche rock’n’ roll e blues, è sopratutto una preghiera, quella verso una “terra promessa” così vicina ma mai così lontana. Nebraska è proprio la traccia che aprirà l’album, storia di morte senza redenzione, di un destino ineluttabile già scritto prima che lo stesso si compia, Atlantic City è forse più “orecchiabile” ma anche la più disillusa, la ricerca di un riscatto personale, un incontro che può essere anche salvezza ma che forse non ci sarà, non questa notte. Mansion On The Hill un racconto più intimo, una storia di “differenza sociale” resa ancora più acuta dalla giovane età di chi la racconta, ed ancora Johnny 99 (98+1,anni di carcere) una storia di ieri ma potrebbe tranquillamente essere una storia di oggi solo che nessun altro sarebbe capace di raccontarla così ed un finale amarissimo ci aspetta là dove le note si fermano. Highway Patrolman narra di una scelta fra ciò che è bene e ciò che è male, senza vinti né vincitori ma solo altri destini che si compiono e che si lasceranno dietro vuoti e perdite, c’è State Trooper una ballata folk intrisa di blues, scarna fino all’essenziale, è un altra fuga da chissà o verso cosa, una preghiera inascoltata, si batte il piede ma non c’è consolazione; Used Cars apre il lato B, un riscatto sociale visto attraverso gli occhi di un bambino e la nuova “macchina usata” di famiglia, Open All Night è un’altra fuga questa volta verso chi si ama, se c’è ancora, se ci sarà, unico brano dove compare una chitarra elettrica ed un ritmo più sostenuto su base rock’n’roll; in My Father’s House si rincorre un passato che ormai non esiste più, quando il senso delle cose era semplice e la sicurezza stava fra le braccia di chi ti amava, ma indietro non si può tornare, la vita è una strada che si percorre solo a senso unico ed infine a chiudere Reason To Belive dal testo amarissimo, la ricerca di una salvezza possibile di fronte all’ineluttabile, una salvezza che non c’è, eppure, malgrado tutto, sempre agognata. Nebraska è la grande letteratura americana, si pensi a Faulkner, a John Fante, è cinema, oltre al già citato Paris, Texas ci viene in mente Stranger Than Paradise di Jim Jarmusch o l’Ultimo Spettacolo di Bogdanovich, è un quadro di Edward Hopper, è un blues senza essere blues (non c’è ironia nei testi di Bruce); Nebraska è un viaggio da affrontare in solitudine ma che comunque vada vale la pena di affrontare, che sia per qualcosa, per qualcuno, o per se stessi. Da Roots! è tutto e come sempre buon ascolto (qui o qui).
New Order – Movement
(1981, Factory Records)
by Simone Rossetti
Capita qualche volta che recensire un album sia come mangiare un buon piatto di spaghetti con un cucchiaio e capita, sempre qualche volta, che il succedersi tra vita e morte lasci un senso di spaesamento e di inadeguatezza che il semplice raziocinio non basta a spiegare. Perchè Movement è un album “sospeso” ed è proprio questa sua condizione a renderlo materia quanto mai viva ed allo stesso tempo morente. Su questo album è stato detto e scritto di tutto fino a sfiorare il gossip, preferiamo quindi evitare una recensione didascalica e farci carico di questa “sospensione” sperando di non tediarvi oltre. Tra un “ieri” che tutti volevano lasciarsi alle spalle ma sempre presente ed un “domani” che tutti avrebbero voluto ma che ancora non esisteva, questo è Movement, questo è il suo limite e la sua bellezza, sospeso per sempre in un presente dove tutti sono fantasmi; quell’album che non si avrebbe mai voluto ascoltare, che in una “normale” discografia di un gruppo non dovrebbe esistere, perchè i fantasmi non suonano, non registrano, non programmano synth e drum-machine, non prestano la propria voce ad un microfono, non creano “movimento”. Ian Curtis non c’è più, i Joy Division non ci sono più, c’è un nome nuovo che al momento è solo un contenitore vuoto, c’è una ragazza di nome Gillian Gilbert che entrerà a far parte del gruppo ed il 13 Novembre del 1981 per la Factory Records vedrà la luce questo album. Se cercate una qualsiasi salvezza non la troverete qui, il suono è quanto mai scarno, freddo, lontano, in ogni traccia si percepisce la ricerca di un “oltre” ma sembra scontrarsi con un passato ancora troppo vivo ed un presente non compiuto, la prima traccia Dreams Never End è forse l’unica velata di una “leggerezza” esistenziale (leggerezza è un eufemismo) poi saranno i synth e i drums programming a scandire i tempi sulle restanti tracce, tappeti sonori alienanti e rumori metallici in una sorta di ultimo commiato, alle voci si alterneranno sia Sumner che Hook ma la sensazione è quella di ascoltare una voce “terza” talmente fragile da sembrare sul punto di spezzarsi da un momento all’altro, Truth con il suo bellissimo giro di basso e le armonie in crescendo è glaciale proprio come il suo procedere verso un finale ineluttabile, Senses è metallica e geometrica con una ritmica quasi tribale su pochi accordi di chitarra, sembrerà poter spiccare il volo da un momento all’altro ma non lo farà; Chosen Time cerca di proiettarsi verso un futuro ancora indefinito per imlpodere infine su se stessa, forse il brano più New Order o almeno un suo tentativo, ICB (Ian Curtis buried) sembra voler tornare indietro ad un posto e tempo che non esistono più, quindi irraggiungibile, The Him con quel suo giro di basso, poi le tastiere a dilatarsi su di una ritmica sincopata, c’è quella voce che stenta, poi le dinamiche che accelerano per ripiegarsi nuovamente su se stesse e mi rendo conto che ho difficoltà ad ascoltare questo brano; Doubts Even Here è tutto quello che questi ragazzi di Manchester che prima si chiamavano Joy Division ora non sono più, brano di una bellezza lancinante, eterea, dolorosa e si chiude con Denial, più sostenuta, ancora più Joy Division, più assenza, più mancanza. Questo è Movement, avremmo potuto scrivere del “chi, dove, come, quando e perchè” ma è stata nostra scelta evitarlo (condivisibile o meno), ci interessava di più raccontarvi questa “sospensione” che bene o male fa parte della vita e del suo contrario, è un “capolavoro” (termine che non amiamo e molto soggettivo), è un album che ha un respiro proprio di rara bellezza e intensità, un album che prenderà “corpo” nel momento stesso in cui lo si ascolta (e solo in quel momento), una dimensione “sospesa” reale e tangibile; storie di fantasmi. Da Roots! è tutto e come sempre buon ascolto (qui o qui)