Roots! n.363 gennaio 2022 Neil Young Crazy Horse – Barn

Neil Young Crazy Horse – Barn

Neil Young Crazy Horse – Barn

(2021, Reprise Records)

by Alessio Impronta

Non volevo farlo. Non pensarci neanche, mi dicevo. Non toccare quel disco, con quella copertina così attraente, che rimanda subito ai giorni di Topanga Canyon ed a ragazze dai capelli rosso scuro che ricordano la cannella. Ti ha deluso mille volte negli ultimi venti anni. Ed invece l’ho fatto. Ho preso Barn, dopo aver ascoltato a malapena un paio di pezzi perché in qualche modo sapevo che questa volta Mr. Young sarebbe stato…alla sua altezza. Ripercorrere la carriera del gigante canadese (Toronto, 12 novembre 1945) è un esercizio lezioso: troppo si trova in rete e troppo si è scritto, ci sono fiumi di pagine su libri di ottima fattura dedicati a lui. In due parole, per chi (ma chi?) avesse ascoltato solo occasionalmente qualcosa del Nostro, consigliamo almeno il primo album dei Buffalo Springfield, capolavoro del Laurel Canyon, Deja’ Vu a firma CSNY ed una manciata di lavori solisti, come minimo Everybody knows This Is Nowhere, Harvest, After The Gold Rush, Zuma (del quale parliamo qui) e On The Beach, ma tanto per essere concisi. E magari condire tutto con un paio di live che illustrino tanto il Neil in versione “all alone” (magnifica la recente uscita del doppio live Carnegie Hall 1970) quanto il Neil in versione elettrica e tirata, e qui potrei consigliare, fra i tanti, Live Rust, che documenta il tour del 1978 coi Crazy Horse. Già, i Crazy Horse, la band storica che lo accompagna da una vita, con alcuni “tradimenti” a favore di esperimenti a volte interessanti (vedi Mirror Ball del 1995 coi Pearl Jam), altre volte decisamente meno. Vedremo tra poco chi è attualmente nella band. Di sicuro, fin dal titolo, ormai Young e la band sono fusi in un’entità unica. Ed appunto, Mr. Young negli ultimi venti anni, se da una parte è stato prolifico, dall’altra non si può dire che abbia sempre colto nel segno. Non tanto nei temi proposti: lui è uno di quelli che ci prova sempre a sollevare questioni sociali, uno che in un mondo di canzonette blande va a toccare argomenti quali la guerra e la politica dei Bush (Living With War), le problematiche legate all’attualità dello sfruttamento industriale (The Monsanto Years), inventa le storie ed i personaggi di Greendale…perdendosi però – a giudizio di chi scrive – in quello che un americano chiamerebbe “the ranting”, l’inveire. Insomma: poche chiacchiere, negli anni recenti non sono mancati i temi, sono mancate le canzoni. A parte un paio di dischi di categoria davvero superiore, Psychedelic Pill e Le Noise. Ed ovviamente senza contare gli inediti vintage di Homegrown. Ma stiamo pur sempre parlando di Neil Young. Uno che il mito del rock lo ha creato, anzi lo è diventato. E i primi pezzi proposti in rete di questo Barn sembravano voler attirare l’attenzione. Premetto che il disco cresce molto bene ascolto dopo ascolto ed è assolutamente godibile. Bene, mettiamoci all’opera: Song Of The Seasons è il Neil della più bell’acqua, quello delle ballate che sanno di grano e fieno, di strade assolate di campagna in un pomeriggio d’estate. Bellissimi i passaggi d’armonica del Nostro, che ricordano i tempi migliori della sua produzione artistica. La voce risente il passaggio degli anni e delle vicende della vita ma ancora “c’è” e racconta con vitalità. Ma subito, si cambia direzione e si parte con l’elettrica e nervosa Heading West, che più Crazy Horse di così non si può. I Crazy Horse, dicevamo, Billy Talbot e Ralph Molina sono sempre lì, a comporre la sezione basso/batteria. Alla chitarra non c’è più Frank “Poncho” Sampedro, ormai ritiratosi nella sua tenuta alle Hawaii e c’è invece Nils Lofgren, che comunque aveva già lavorato con Neil fin dai tempi di After The Gold Rush. Ma andiamo avanti col disco: qualche pezzo è più ordinario di altri (Change Ain’t Never Gonna, Shape Of You) ma senza mai scadere nel riempitivo inutile. Canerican spiega bene a tutti perché Young sia stato sempre ritenuto il padre putativo del grunge. Quel pezzo avrebbe potuto stare benissimo nel catalogo dei Mudhoney o dei Pearl Jam (tralasciando la querelle storica se siano grunge o no), un pezzo aggressivo e dai toni darkettoni che decisamente fanno molto Neil Young. They Might Be Lost, uno slow country rock, intenso, evocativo di panorami immensi guidando da soli in qualche angolo di mondo. Forse il pezzo più bello del disco insieme alla successiva Human Race, aggressiva e diretta ed a Welcome Back, lenta, pensosa, oscura. In mezzo alle due Tumblin’ Thru The Years si apre con un bel piano suonato da Young e scorre via in modo gradevole, senza sussulti. Chiude l’album, e chiude bene, Don’t Forget Love, una canzone con strumentazione minimale ed un testo pieno d’amore e speranza. “When you’re angry and you’re lashin’ out, don’t forget love”. Un messaggio che non dobbiamo mai dimenticare, specialmente in tempi come questi. Da Roots! è tutto e come sempre buon ascolto (qui o qui).

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