Roots! n.585 dicembre 2022 Monteclava – Al Canto Dei Pidocchi

Monteclava - Al Canto Dei Pidocchi

Monteclava – Al Canto Dei Pidocchi

(2022, Music à La Coque)

by Tommaso Salvini

 

La visione di uno scheletro antropomorfo ci fa paura, ci trasmette ansia, inquietudine, e siamo spinti a catalogarlo come un qualcosa di semplicemente macabro. Eppure noi siamo quello scheletro, abbiamo una struttura ed un movimento perché la nostra architettura interna ed esterna si fonda principalmente su di esso. Noi abbiamo paura di noi stessi perché, in fin dei conti, forse, ci rifiutiamo di accettare che non siamo né belli e né brutti, siamo solo scheletri anonimi.

La morte viene spesso raffigurata come uno scheletro avvolto in un saio nero: la nostra principale paura, morire, sparire, semplicemente non essere, è uno scheletro: umanità ridotta ai minimi termini, alla sua forma più povera e spoglia, verrebbe da dire anche deprimente se non fosse che, appunto, noi siamo quello scheletro. Pensiamo dunque di essere deprimenti e non lo vogliamo ammettere?

Parimenti, appariamo sempre disorientati se non addirittura frodati quando in un disco, anziché delle armonie riconoscibili, troviamo solamente dei suoni puri, senza costruzione, senza carne, senza muscoli, esattamente come uno scheletro; una serie di battiti, rumori di fondo, ingranaggi, echi. Come con il nostro scheletro, abbiamo problemi anche con l’essenza prima della musica: il semplice suono. Eppure, anche in questo caso, il suono è ciò di cui la musica si compone: prima presente in natura, nella pioggia, in un gesto, nello spostamento di oggetti, nei rumori quotidiani e routinari, il suono ci circonda, scandisce il ritmo dei nostri passi, dei nostri pensieri. Siamo scheletri e siamo suoni. Nulla di più. La cassetta di Monteclava è una sequenza di suoni, pidocchi fatti di attimi quotidiani isolati ed esposti ad un microscopio, di fronte ai quali, in un ascolto disattento, corriamo il rischio di porci nel modo sbagliato:

Questo lo potevo fare anche io” potremmo dire, ma la verità è che, sul serio, tutto questo l’abbiamo fatto proprio noi. Riportare su nastro il suono scarno, privo di carne e costruzione, privo di rimandi alti o bassi che siano, riferimenti ad autori e a titoli di dischi: un rito banale cui questa cassetta non si espone e, non si espone, poiché anziché richiedere prostrazione di fronte all’arrangiamento, devozione all’armonia azzeccata e memorizzazione della melodia irresistibile, chiede solo partecipazione da parte dell’ascoltatore: “tu cosa ci senti? Cosa puoi costruire intorno a questi suoni privi di musicalità? Cosa riconosci di te in questi campionamenti di routinari rituali quotidiani?”. Se non ci si spaventa e indigna di fronte a questo puzzle di ossa e suoni si rischia di rimanerne coinvolti, immaginarsi scenari , creare teatri immaginari nella propria mente, poiché è proprio dove sembra che non ci sia niente che risiede il tutto. La capacità umana di immaginare e proiettare qui viene stimolata e sfidata e lo si fa con arte insospettabilmente raffinata: nella sintesi c’è la poesia del non detto, tra le righe si scoprono enormi verità su noi stessi. Una collana di stimoli per l’intelletto che viene costretto ad immaginare ed interagire. Non è tanto quello che in questo nastro è inciso quanto quello che tu puoi farne con le tue capacità cognitive, quello che ti ricorda, che risveglia nel tuo subconscio, che suggerisce al tuo ippocampo. Il suono è come lo scheletro: un principio primo che ci accomuna tutte e tutti, senza distinzioni di razza, ceto, gusto, armonia e melodia; una livella che ci pone tutti sullo stesso piano. Dovremmo iniziare a scendere a patti con questo assunto, pena la mancanza di empatia, l’illusione di essere qualcosa che, in fin dei conti, è disegnato e raccontato a mezzo di sovrastrutture. E le sovrastrutture non sono umane, il suono e lo scheletro si. Da Roots! è tutto e come sempre buon ascolto (qui).

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