
Malauriu – Malauriu
(2022, Southern Hell Records, Nero Corvino, Zero Produzioni)
by Tommaso Salvini
Mi pongo di fronte a questo disco, questo omonimo debutto dei Malauriu, senza filtri, aspettative, schiaccio play e lascio scorrere; non so cosa aspettarmi, forse non lo voglio neanche sapere. Un gong, canti distanti ed atavici, echi di un’elettronica persa, smarrita, poi ritmica tribale… una voce scandisce un racconto oscuro quanto il paesaggio sonoro che piano piano si delinea, si fa sempre più presente, più incalzante, imperioso. Gli undici minuti di Morto Era l’Oro scorrono via veloci, coinvolgenti; prendono ed attanagliano, distogliendomi dal compito di dover fornire a voi, che leggete, dei riferimenti, degli appigli, delle certezze, poiché io per primo me ne accorgo privo. Il lato più oscuro del kraut rock? Tangerine Dream? Popol Vuh? Quel modo devastante di intendere i primi accenni di industrial dei Current 93? Quel piccolo capolavoro misconosciuto che sono i Revolutionary Army Of The Infant Jesus? Non so: sto ascoltando Corpo-Mente, frammenti irrequieti di un’elettronica buia come una tomba, sorretti da un basso maligno e da una recita satanica. Il male, di quello puro, libero di morale e di sovrastrutture, impera per lo svolgimento intero della traccia. Una traccia distrutta, quasi free form, un cantato che non è cantato ma che è recitazione tra Carmelo Bene e un boia che si rivolge al condannato. L’inquietudine dell’intera composizione lascia quasi esanimi, in preda ad angosce ataviche. Il coro di bambini si riaffaccia e fa di nuovo spazio a un percussionismo tribale accompagnato da un pianoforte minimale e cupo. Impossibile non perdersi quando poi tutto esplode in un campionamento di urla che segnano il confine tra la sanità mentale e la totale perdita di questa. Lo riconosco: son piacevolmente sorpreso, ho iniziato questo ascolto senza sapere cosa aspettarmi e, man mano che scorrono i minuti, rimango sempre nella solita condizione della premessa: pur rimanendo statici, i Malauriu, aggiungono, tolgono, sorprendono, inquietano e mi lasciano, appunto senza appigli. Echi di un prog dimenticato, alla PFM per intenderci, con questo synth così presente, si affacciano in maniera minacciosa su Specula, ma quello che abbiamo di fronte non è un pezzo prog; per niente: l’uso del synth è funzionale alla dimensione proposta nel brano in questione; pennella, dona forma, spessore, descrive e definisce quei paesaggi che ci compaiono di fronte a uno specchio. Cosa vediamo davvero quando ci vediamo riflessi? In questo brano non troverete la risposta ma una proposta di riflessione sull’argomento che, se ci si pensa bene, vale molto, molto di più. Sul finale la voce principale accenna quasi una melodia cantata; una filastrocca dannata ed intrisa di disperazione mentre il synth ricompare per sottolineare un’atmosfera di abbandono e rinuncia…ma voi non rinunciate, continuate imperterriti a riflettere sulle note di questo pezzo introspettivo, su voi stessi, su chi siete, su cosa volete. Si scivola sull’ultima traccia quindi, la splendida L’oro S’è Fatto, ma non è uno scivolare quieto, al di là delle apparenze: quella che ci si para di fronte è l’ennesima voragine di perdizione. La batteria fa il suo ingresso, facendo da direttore d’orchestra per sonorità lounge tutt’altro che da aperitivo; un’altra volta il synth, inquieto e malsano, sporca l’andamento gioviale della ritmica rendendola partecipe, nonché complice, del suo scoramento. La batteria scompare e ci lascia soli con la voce narrante ed il synth: peggiore compagnia non può esserci per la propria salute mentale. Anche quando riattacca, per un attimo solo, ormai siamo rapiti dal declino che ci trascina verso frammenti di suoni distanti: un assolo di chitarra rubato chissà dove, campanelli, ancora il synth…difficile non perdersi in questa stasi così movimentata, fatta di suoni che si avvicendano e si alternano. La voce torna e sembra di essere a teatro, poi tutto si rompe, tornano ritmiche tribali. Il narratore suggerisce “confida nella notte!” ed è quello che faremo, unica scelta possibile in un puzzle sonoro nel quale l’unica chiave di ascolto risiede nell’abbandonarsi. Un disco che non può essere suonato , questo, poiché in verità, nel suo essere così sapientemente sospeso tra Teatro e una composizione ad esso funzionale, è il disco che fa suonare chi l’ascolta. Mi fa pensare più ad un’opera teatrale dove la musica è più commento, sapiente sottolineatura di quanto enunciato; durante la recensione ho provato a proporre degli accostamenti musicali che son certamente rivelatori degli ascolti di chi ha composto ma, per chi ascolta, potrebbero risultare fuorvianti: quello che vi troverete di fronte è dunque Teatro, recita, emozione, condivisione di sensazione e il consiglio è di farsi spettatori più che ascoltatori. Difficile definire una raccolta così ed io non lo farò; per rispetto di queste 4 tracce e di chi ha avuto così tanto ingegno nel comporle, metterle insieme e altrettanto encomiabile coraggio nel proporle. Quando un qualcosa o un qualcuno cercano in tutti modi di non essere definiti, l’errore più grave è sforzarsi di fornire spiegazioni e riferimenti a dei potenziali ascoltatori; quindi, come da iniziale premessa: ponetevi di fronte a questo disco senza filtri, aspettative, schiacciate play e lasciate scorrere; non dovete sapere cosa vi aspetta, forse non dovete neanche pretenderlo, volerlo ed esigerlo: sarà il disco stesso a guidarvi senza dare risposte ma solo domande: rispondere a queste, nel mentre si procede nell’ascolto, è forse l’unica chiave possibile di comprensione di quest’opera. Da Roots! è tutto e come sempre buon ascolto (qui o qui).