
Joe Bonamassa – Time Clocks
by Alessio Impronta
Joe Bonamassa, un nome, una garanzia. Anche troppo, verrebbe da dire a volte. Il quarantaquattrenne chitarrista/cantante di New Hartford (NY) ci ha abituato troppo bene. Un esordio fulminate, appena nei suoi vent’anni con A New Day Yesterday (sì, faceva anche quella cover e molto bene) e poi via con una carriera all’insegna di un hard blues in cui sono sempre state rintracciabili le sue dichiarate passioni: Jeff Beck, Truth è il suo disco preferito, Gary Moore, Peter Green, Rory Gallagher, Deep Purple ed hard rock anni ’70 in generale, il British Blues di John Mayall e soci, i Free, la sua band preferita, forse un po’ a sorpresa dato il suono sicuramente più secco e scarno del quartetto londinese, ma se si ascolta la chitarra di Paul Kossoff, anche lì stanno le radici del newyorkese. Time Clocks, ultima fatica del nostro uomo è il sedicesimo lavoro in studio. La carriera di Bonamassa è all’insegna di un blues rock muscolare, ritmiche marcate ed incalzanti, chitarre esplosive, per lo più Gibson, un buon cantato che, se non può tenere testa a un Gillan o ad un Coverdale, è tuttavia potente e deciso. E su questa carriera, a parere mio, Bonamassa si era un po’ adagiato. Ora, c’è da dire che alcuni suoi lavori sono più che apprezzabili: delle vere e proprie perle, da avere senza dubbi. You and Me, Sloe Gin forse il suo Led Zeppelin III, più acustico ed intimo – ed il fantastico Dust Bowl, un vero discone degno di stare in una collezione musicale accanto ai nomi altisonanti dei nostri eroi di cinquanta anni fa. E poi una pioggia di collaborazioni, fra tutte quelle con la bella e brava Beth Hart ed i dischi coi Black Country Communion (con Glenn Hughes, Derek Sherinian e Jason Bonham) nonché una pioggia di lavori live, la sua migliore dimensione: fra tutti segnalo il Live from the Royal Albert Hall del 2009, la Acoustic Evening at the Vienna Opera House del 2013 ed il recente Live at the Sidney Opera House. Però, in tutto questo, forse anche per i molteplici impegni ed una certa mancanza di elaborazione, alcuni dei suoi lavori avevano iniziato a percorrere strade già ampiamente battute. A Dust Bowl erano succeduti lavori di buona fattura ma in cui, di base, non succedeva nulla. Difficilmente potevano portare l’ascoltatore ad appassionarsi realmente: clichè usati con sapienza ma pur sempre clichè. Una sensazione di “già sentito” inevitabile. Da un po’ invece le cose sembrano cambiate. Royal Tea, dello scorso anno, si muoveva in una ritornata e rinnovata voglia di far prevalere la canzone sul suono – cosa che in qualche lavoro sembrava nel contrario ordine di importanza – e questo Time Clocks si muove pure in questa direzione. L’inizio è sempre “alla Bonamassa”. Una dichiarazione a seguirlo nel percorso del disco, nel suo più classico stile: in tal senso Pilgrimage/Notches non lascia dubbi, atmosfere cupe, chitarra che si insinua piano in un crescendo di note condite da un bel lavoro di didgeridoo, classico strumento a fiato australiano, da parte di Bunna Lawrie dei Coloured Stone. The Heart that never waits è British Blues della più bell’acqua. Potrebbe stare qui o in un classico album di Gary Moore. Poi però il disco inizia a cambiare, ed in modo non del tutto atteso. Time Clocks è una splendida ballad, potente e solare. Il riff ed i toni del pezzo in generale, a dire il vero, sembrano rubati a qualche disco del miglior Bon Jovi di decenni fa ma…meglio. La canzone è in realtà una riflessione amara sul tempo che passa e le occasioni di vita perse e si apre in uno splendido ritornello condito da un solo gustoso che fanno sperare che il buon Joe si avventuri un po’ più spesso in terreni decisamente più pop, pur senza tralasciare le sue radici, che comunque qui di certo non mancano. Questions and Answers riporta alla mente Black Magic Woman dei Fleetwood Mac migliori, quelli di Peter Green. Mind’s Eye è la ballad dell’anno. Una richiesta di aiuto, un grido cantato stavolta a bassa voce e con toni caldi e dolenti. Un pezzo affascinante, non diverso da tante altre ballate certo, ma di grande qualità, mai banale e mai scontato. Curtain Call è l’omaggio a Jimmy Page, del tutto palese, l’incedere di Kashmir è fin troppo evidente. Emergono anche elementi di folk inglese, in The Loyal Kind, anche se poi il pezzo si sviluppa nei temi più cari al nostro bluesman. Un lavoro che, tirando le somme, se da una parte è del classico Bonamassa, dall’altra introduce elementi interessanti e di gusto. C’è da sottolineare poi come Bonamassa si circondi sempre di musicisti eccezionali per i suoi lavori, in studio e live. Qui la band, turnisti a parte, è composta di base oltre che da lui, dal tastierista Lachy Doley, dal bassista Steve Mackey e dal batterista di vecchissima esperienza Anton Fig, uno che ha lasciato traccia in decine di album storici “coprendo” spesso le parti di musicisti non in grado di suonarle in quel momento per vari motivi, uno su tutti ricorderete I was made for loving you dei Kiss. Insomma, Joe Bonamassa qui fa un salto di crescita e forse rischia qualcosa in più del (bel) solito. Tentativo riuscito? Per chi scrive, sì: è un bell’album davvero molto godibile. Fra l’altro il packaging, sempre molto curato, contiene alcune cartoline/immagine, alcuni plettri – ma sì, fatevi prendere dalla voglia di suonare – ed un paio di sottobicchieri: in fin dei conti, il blues va gustato con un bel whisky in mano, sennò che blues è? Cover art di Hugh Syme (Rush, Megadeth, Kiss, Dream Theater ed atri mille artisti).