
Jackson Browne – Downhill From Everywhere
(2021, Inside Recordings)
by Alessio Impronta
Qualche giorno fa, in giro per Roma…fra i vari impegni, il tempo per una visita a qualche negozio di musica si trova sempre. A volte si entra con qualcosa già in mente, altre volte no. Si gira per gli scaffali, si respira aria calma e positiva e si fanno scorrere le dita fra i dorsi dei cd o (se preferite) si fanno sapientemente ritmare le dita sui bordi delle copertine dei vinili, in cerca del prossimo innamoramento. Insomma, per farla breve, stavolta mi sono portato a casa il nuovo di Jackson Browne. Non lo avevo messo in programma: ho qualche suo lavoro, amo alcune sue canzoni ma non posso dire di essere un fan, specie delle produzioni degli ultimi trent’anni. Però mi era rimasto qualcosa dei video che aveva fatto da casa in piena pandemia. Mi avevano colpito in qualche modo. Un’immagine un po’ diversa, forse un nuovo amore, chissà. E poi per chi, come me, adora la west coast, un credito a quello che è stato uno dei fenomeni del cantautorato dell’America degli anni ’70 va dato. Browne è stato uno dei bardi di un’era nella quale, dopo la sbornia degli istinti libertari ed anarchici dei tardi anni ’60, si cantava l’introspezione, la disillusione, la ricerca di un qualcosa non messo bene a fuoco. Già The Pretender del 1976 presagiva l’arrivo dell’era yuppie. In qualche modo era il contraltare dell’Hotel California degli Eagles, l’eterno intrappolamento in un’ideale di “love generation” che ormai era solo clichè. E Browne è andato avanti fino ai toni più rabbiosi di Lives In The Balance, continuando a descrivere un’America, la sua, che non ce l’aveva fatta, amori finiti e un senso di non appartenenza agli anni in corso. E, di album in album, è arrivato questo quindicesimo lavoro. Un lavoro che, come sempre, include testi pieni di riflessioni socio-politiche, senza trascurare pensieri sui rapporti personali, confezionando il tutto con musiche che potrebbero benissimo essere state concepite nel 1975, tanto si rifanno al Browne più classico. Solo, le sonorità sono moderne, al passo coi tempi, come capita con gli album di David Crosby, uno che negli ultimi anni ha prodotto lavori di altissima qualità e da avere senza alcun dubbio. Non vi aspettate che compaiano i suoi vecchi amici di The Section (Leland Sklar, Russ Kunkel, Craig Doerge, Danny Kortchmar). C’è il solo Kunkel in un brano, Minutes To Downtown. Ma veniamo al disco: intanto, diciamo subito che è un gran bel lavoro. Non ci sono solo le idee, le dichiarazioni, le riflessioni. C’è musica, ed è bella musica. Il brano di apertura, Still Looking For Something, è la dichiarazione forse più ovvia per uno come Browne: “I’m still looking for something…if all I find is freedom, it’s alright”. Non è una resa, è una presa di coscienza. Poi, My Cleveland heart in cui c’è una lap steel che sembra quella di David Lindley, in realtà è il bravo Greg Leisz a far viaggiare questo bel rocker da moto e strade polverose e con un testo che riguarda lui come chiunque di noi: “I’ve been walkin that broken line between/the way life is and the way it seems”. Chi non è mai passato attraverso tutto questo, ciò che sembra e ciò che è? Abbiamo già citato Minutes To Downtown che, a giudizio di chi scrive, è il miglior pezzo del disco, con una bellissima intro, note di piano su una base ritmica calzante che da cupe ed oscure si aprono verso quello che effettivamente è, una dichiarazione per un nuovo amore, “No, I wasn’t thinking you would be more than a friend/the years I’ve seen that fell between my date of birth and yours/fade before the altered state of a river changing course”; A Human Touch vede alla voce Leslie Mendelson, un pezzo delicato in stile nu-country (proprio ad iniziare dalla voce). Uno di quei pezzi che, avessi ascoltato il disco venti anni fa, forse avrei criticato ma che oggi assume un altro colore. Come se, con gli anni, fosse più semplice arrivare ad apprezzare una certa morbidezza in musica, una canzone dai toni più tranquilli e a tinte pastello. L’altro pezzo che è il punto forte del disco è la title track, Downhill From Everywhere, appunto. Altro tema caro a Browne come ad altri della sua generazione e che, dopo un gap fra gli anni ’80 e ’90 ha trovato una strada nelle nuove generazioni: l’ambiente. Il crollo di qualunque cosa, fino all’ultima fermata, l’oceano. Do you think of the ocean as yours? Si chiede il nostro. Certo, ci sono episodi minori, niente più che gradevoli e con accenni in francese o spagnolo che sembrano ridondanti e cito Love Is Love e The Dreamer. Ma si ritorna subito in carreggiata con Until Justice Is Real e A Little Soon To Say. “But whether everything will be alright/it’s just a little soon to say”. Una delle frasi che preferisco, di questo lavoro, chiuso da A Song For Barcelona. Frase che mi suggerisce una riflessione: chi, come me, è nato in un’epoca in cui la musica aveva un valore alto, in cui un disco non era un’opera da consumare in mezz’ora ma era oggetto di ascolti ripetuti, di pensieri, di grandi passioni, restava con se’ per mesi o anni, ha sempre avuto l’idea che i cantanti, le band, potessero risolvere il mondo. Ecco, questo non è successo. Un disco, una canzone ti possono cambiare un momento, una giornata. Forse ti possono anche salvare la vita, ma dovrai essere tu a raccogliere il messaggio e farlo tuo. Sarai tu a dover cambiare te stesso e la realtà intorno a te, per quanto potrai: Jackson Browne o chi per lui, non avranno mai la soluzione, solo una luce per la ricerca. E noi, continuiamo a cercare, accompagnati dalla musica che gira intorno e che non ci lascerà mai. Questo disco, pur non essendo un capolavoro, può farne degnamente parte. Avendolo ascoltato, lo ricomprerei? Certamente. Una nota per la copertina di Edward Burtynsky, un fotografo che ritrae paesaggi e scenari moderni e desolati, come nella raccolta Shipbreaking da cui è tratta l’immagine principale. Nel 2022, Browne sarà in tour con James Taylor, speriamo di vederli anche dalle nostre parti. Buon ascolto! (qui o qui). Roots!