
Il Dallas – Io Sono Dinamite
(2022, autoprodotto)
by Tommaso Salvini
Parlare di un disco difficile è facile se la difficoltà è tutta nel cimento, nello studio e nella dedizione in fase di composizione di chi, tale disco, lo ha immaginato, costruito ed infine concepito; chi ascolta deve solo rilassarsi e prender nota, affidarsi al musicista ed essere ben predisposto verso le varie suggestioni ed impressioni che un attento ascolto potrà suggerirgli…Ci eravamo lasciati con l’ostico ed omonimo debutto del 2018 con questi Il Dallas da Treviso; un pastiche ben riuscito tra recitazione da tetro cabaret, Post Punk, Black Sabbath, citazioni altissime e riferimenti Pop per abbassare la temperatura generale e far sentire a casa uno stranito ascoltatore che, già in questo debutto, poteva trovare, tra strutture volutamente stravolte in nome dell’effetto sorpresa (sempre piacevole e mai forzato, indice di una sapienza compositiva non comune), ad ogni pezzo un vicolo cieco pieno di sorprese ed inversioni repentine. Votati ad un Rock’n’Roll che tutto è tranne rivisitazione ma base per racconti dell’insolito, riflessioni su presenti destabilizzanti ed un accompagnamento in musica che, proprio partendo da questa base narrativa, si evolve e si fa, appunto, insolito e destabilizzante. Ci avevano lasciati a “Pensare a passati polverosi” e dalla polvere, però da sparo, ci riprendono per mano: Io Sono Dinamite è una bomba ansiolitica che inizia in sussurrata nenia, si rinforza con un basso teso e chirurgico, si scuote con colpi di batteria come attacchi di cuore e poi infine esplode per lasciare posto alle trombe trionfali di Tupelo ed alla sua recita viziosa, le sue considerazioni crudeli ma necessarie: un rock che sembra hard rock ma che hard rock non è mai fino in fondo; Il Dallas sembrano non voler essere niente fino in fondo…nessuna effigie, nessuno stendardo, nessuna bandiera: quel che conta è la recita, la messinscena, la rappresentazione; un teatro quotidiano che scorre di fronte ai nostri occhi, riproposto nelle sue contraddizioni e nei suoi dispiaceri. Un teatro tragico in modalità greca ma anche da strada: Polisportiva Stradazza, sempre hard-rock roccioso, sabbathiano, che esplode in falsi trionfi di tromba. Non c’è niente da portare in trionfo e la marcetta fiacca, parodistica, di Figli Di Puttana pare confermarcelo: anche quando esplode in un giro granitico di Blues intinto in un fluido satanico (infatti si parla di reietti e, in dotta citazione sartriana, dell’inferno che, immancabilmente, sono gli altri); con voce claudicante, beffarda, tra risate e un ritornello da nave pirata, il cantante ci accompagna, con immancabile sorriso, verso un inferno fatto di delusioni e rinunce…Il Sogno Di Leo è introdotto da un coro ubriaco che invita ad una danza storpia, storpia come la vita descritta nel testo, sempre in un calderone fatto di vecchi dischi anni ’70 incisi da bianchi posseduti da demoni neri: biasimi pronunciati a mezzo di frasi fatte, frasi finite, frasi insulse, frasi dette così tanto per dire, frasi alle quali si reagisce con l’unica risposta possibile “Voglio osare solo se osare è perdere”. Perdere in una società che vuole leggere di sole vittorie nei curriculum vitae, ignara del fatto che compilare un curriculum vitae è di per sé una sconfitta. E così che, dopo una valanga di riff e ritmiche crudeli, parole pronunciate volutamente sulle coordinate lasciate in eredità da Carmelo Bene, Il Dallas si rilassano, si distendono e È Poesia Forse Questa? si chiedono in una ballata che, al solito, non vuole essere ballata fino in fondo: va piano, si adagia su tonalità minori, ruba melodie al Post Punk dei Joy Division col basso e le ricopre di piccoli fraseggi rock, trombe soffocate e con una batteria accennata; ma il clima è quello della farsa, la cifra è ironica, il risultato è amaro…niente di romantico, niente di sentimentale, tutto totalmente umano e distaccato. Un bisturi che lentamente fende ogni certezza e la fa sanguinare per poi concludere in sconcertanti ammissioni fatte di fronte ad uno specchio impietoso ed ingrato: Ignorante è una marcia solida dove, senza garbo, ci si autoflagella elencando tutti i propri difetti, fallimenti, sconfitte e che conclude con l’ammissione più umana possibile, quella che fa da base per ogni possibile ripartenza, viaggio interiore o esotico “Sono un ignorante!”: una frase urlata con tutto l’orgoglio che una dichiarazione così merita: siamo tutti ignoranti, di fronte alla vita, di fronte agli altri, di fronte a noi stessi e, come me, di fronte a questo disco così carico di vita, poiché motivato nell’esporre le sue contraddizioni, sia nei concetti espressi che nella musica suonata, e nel farne arte. Da Roots! è tutto e come sempre buon ascolto (qui o qui).