E SE DOVESSI SCEGLIERE 5 LIVE? GLI INDISPENSABILI…
by Alessio Impronta
- Live/Dead – the Grateful Dead (Warner Bros 1969). Riprendendo un discorso iniziato fra Sgt Pepper’s e Music from… questo è il live psichedelico per eccellenza. Non vi fate sedurre da nomi strani, da oscuri cavalieri che quell’amico ben informato…qui, c’è tutto. Il mistero della Dark star, il colore del suono della chitarra di Garcia, le jam avventurose, Pig Pen ed il suo affascinante R’n’B. Il feedback finale e la dolce We bid You goodnight, a farci atterrare dopo un volo infinito.
- At Fillmore East – the Allman Brothers Band (Capricorn Records 1971). L’ultimo lavoro ufficiale della ABB originale così come conosciuta. Una band che, da quel momento in poi, massacrata da tragedie, cambierà drammaticamente volto, perdendo in poco tempo sia Duane Allman, che morirà pochissimo tempo dopo il release del disco, che – l’anno dopo – Berry Oakley. Questo lavoro splendido, intriso di blues, country, jazz (Duane era un avido consumatore di Miles Davis), è fra le 50 registrazioni conservate nella Library of Congress e secondo L’Independent è il miglior live della storia. Inutile dire altro: va ascoltato e soprattutto da noi in Italia va scoperto. Sinceramente, da’ la paga a ben altri live molto più noti e celebrati, da noi, sicuramente belli ma non intensi e suonati da Maestri come questo.
- Waiting for Columbus – Little Feat (Warner Records 1978). Un manifesto degli anni 70. D’accordo, i Little Feat non sono nomi troppo noti in Europa ed anche in America non dominavano le classifiche. Questo live però fa giustizia: in apertura, la band che riscalda le voci ed invita a seguirli, per poi partire con Fat man in the bathtub ed altri pezzi fantastici, fra il rock, l’R’n’B, la west coast e le tinte jazzate tanto care al tastierista Billy Payne ed al chitarrista Paul Barrere ed odiate dal fondatore Lowell George, che infatti tentò di rifondare la band senza i due, per trovare però la morte l’anno dopo l’uscita di questa gemma, nella quale peraltro si fa valere a dimostrazione che le tensioni in una band, se c’è la sostanza, non impediscono di creare un grande lavoro. Che, tornando al discorso iniziale, vendette tantissimo, arrivando ad una 18ma posizione negli States che, negli anni 70 significava aver centrato l’obiettivo, unendo successo commerciale e musica di altissimo livello.
- Made in Japan – Deep Purple (EMI 1972). Roger Glover lo definì “il disco più onesto della storia del rock”. A fronte di live reincisi, sovraincisi, pieni di parti rifatte in studio, qui sembra che non ve ne sia traccia o comunque in pochissime cose (secondo Lord solo qualcosa su Strange kind of woman). Ora, non che “aggiustare” le tracce in studio sia un male: il live deve dare, più che una documentazione precisa,”l’impressione del live” che (cit. Paul Stanley, Kiss) si vive con le orecchie ed anche con gli occhi, e che quindi sul momento, fra il coinvolgimento, l’emozione, il sound del locale o della sala etc. non darà MAI la stessa sensazione e men che mai la stessa resa che si potrebbe avere dopo, riascoltando un prodotto a casa. Tuttavia, il fatto che i DP siano riusciti a presentare un prodotto molto genuino, di prima mano, è una testimonianza della grandezza della Mark II di questa band. Un disco che peraltro neanche sarebbe dovuto uscire sul mercato mondiale, inizialmente era previsto per il solo mercato giapponese. Ed invece eccolo qui, dopo quasi 50 anni, a far parlare di se’. Un disco che non è mai invecchiato e continua ad appassionare ieri come oggi, uno di quelli che vengono scoperti e riscoperti anche da giovani generazioni, tenendo ancora alta la bandiera della migliore stagione del rock.
- Get Yer Ya-Ya’s Out – the Rolling Stones (Decca records 1970). Il disco che testimonia una fase della vita ormai lunghissima della band che, suvvia, nessuno può negare di amare. A quel tempo, il manager Sam Cutler li introduceva come “la più grande rock and roll band del mondo” (ed il disco si apre così). Vero? In quel momento sì. I Beatles se ne erano appena andati e loro erano rimasti a portare la fiamma del rock anni ’60 introducendolo nella nuova decade col nuovo, splendido, chitarrista Mick Taylor. Certo, è un disco in cui è evidente che, Taylor a parte, non siamo di fronte ad una band di virtuosi. Ma ci sono i pezzi, gli omaggi alla storia con Carol di Chuck Berry a riportarci all’inizio del discorso sui “fondamentali” e con una versione di Love in vain con una slide assassina che, se forse non tocca gli apici di Ry Cooder o Jerry Garcia, ha un gusto ed un colore unici. Chiude Street fighting man, un inno alla rivolta rock and roll che forse resta strozzato in gola, più un’intenzione che una realizzazione e che, eppure, ci porta sempre a pensare che il sogno di arte e libertà possa sempre rinnovarsi.
E SE DOVESSI SCEGLIERE 5 LIVE? GLI INDISPENSABILI…
by Simone Rossetti
Già che siamo a parlare di musica, molto liberamente e serenamente, confesserò una cosa, non sono un grande estimatore dei live, sto parlando dei grandi eventi, dei grandi numeri, no, come avrete modo di intuire le mie preferenze vanno ad altro, questione di predisposizione.
- Concert: The Cure Live – The Cure (Fiction 1984). Il mio “live” per eccellenza, una gemma grezza ed oscura che ancora oggi mantiene intatto tutto il suo fascino.
- Live at Raji’s – Dream Syndicate (Restless Records 1989). Il paisley underground nella sua massima espressione.
- Preston 28 febbraio 1980 – Joy Division (NMC Music 1980). Materia viva.
- Metallic 2x K.O. – The Stooges (Skydog/Jungle Records, recorded 1973/1974, released 1988). Qualità pessima ma di inestimabile valore e bellezza.
- I’ve Just Killed A Man I Don’t Want To See Any Meat – Plan 9 (Midnight, 1985). Non conoscete i Plan 9? Non importa, tanto non li conoscerà nessuno; un piccolissimo live di psych-garage-punk che non vi cambierà la vita né cambierà questo fottuto mondo, e allora? Cosa state aspettando?.