
Horus Black – Spinning Rainbow
(2022, Kleisma)
by Tommaso Salvini
Questo Ep ha una caratteristica fondante comune in quei dischi che, anche a fronte di un minutaggio ridotto dato il formato, riescono, traccia dopo traccia, a stimolare all’ascolto attento anche l’orecchio e la mente più distratte: proposta eterogenea ma un forte carattere compositivo che riesce nell’intento, non certo semplice, di fare da collante. Horus Black ci porta a spasso in un carnevale di colori, atmosfere, umori, di varia origine e forma ma l’impressione e che li si sappia gestire, addomesticare e convertire a uso e consumo della propria cifra artistica; un verbo che pare sospeso tra sesso e un vago senso di dannazione, quell’Eros e quel Thanatos che fanno da colonna portante e motore della tragedia greca e, non da ultimo, alla vita di tutti i giorni. Ha carattere Horus Black e lo dimostra ampiamente saltellando tra i generi, alle prese con una creatività e un divertimento (sempre però trasfigurato da una giusta dose di disperazione) che fanno invidia: lo swing maledetto della canzone che da il titolo all’EP, un concentrato di vitalità supportato da una tastiera che sa di locali fumosi, colonne sonore di film i cui protagonisti indossano occhiali da sole al chiuso, cocktail velenosi con oliva ed ombrellino: stile, eleganza, una voce che sfiora il lirico nel pronunciare “I’m Lost…” e un’atmosfera che sembra preannunciare, nelle sue ritmiche serrate e frenetiche, l’avvento di una bomba. E la bomba arriva con il nome di Beatrice brano che somiglia ai Birthday Party ultimo periodo: la voce sfiora l’urlato pur mantenendo un che di operetta e di sinuoso, sensuale, passionale. Una voce caratteristica, riconoscibile fra mille, vero e proprio marchio di fabbrica di una mente altamente creativa che nella successiva Kill With You Kisses si getta in un’elegia romantica per sola voce e chitarra: un Unchained Melody dei nostri tempi cantata sfruttando la lezione di Anthony And The Johnsons. Un pezzo che, nella sua quiete, si rivela spietato tanto quanto il titolo promette. Si riaccende il fuoco senza tregua nel Post Punk di The Monster, brano serrato e ritmato ai limiti del punk rock con un fraseggio ostinato di chitarra che dona al pezzo un velo irremovibile di ossessione e monomania, fino al coro epico, nuovamente da opera lirica, in cui il pezzo si risolve: suoni d’archi e sogni infranti. Mirror On The Wall chiude in levare, affacciandosi in territori rocksteady, per poi, nel ritornello, aprirsi di nuovo in toni epici, tra archi e fiati trionfali. Ancora una volta una descrizione che potrebbe indurre il potenziale ascoltatore all’errore “Detto così pare un minestrone senza capo né coda” ma in verità questa commistione, proprio in virtù del forte carattere qui più volte decantato, è la vera forza del pezzo: breve la durata ma intensa e smaliziata la capacità di scrittura, capace di far digerire ritmi Jamaicani affiancati a esplosioni barocche e decadentiste. Un pezzo, questa Mirror On The Wall, posto strategicamente in chiusura a mo’ di manifesto ed estrema summa di un disco la cui cifra si rintraccia proprio nella sua apertura a vari stili pur mantenendo un Mood costante e un’ atmosfera intaccabile: una cortina di nebbia dove le figure si confondono per stimolare l’immaginazione e dar vita a nuovi criteri di percezione del reale. Encomiabile. Da Roots! è tutto e come sempre buon ascolto (qui o qui).