

Pink Floyd – More
by Simone Rossetti
Potete crederci o meno ma tra la ricca discografia dei Pink Floyd esistono anche album cosiddetti, o considerati, “minori”; More (1969, registrato presso i famosi Abbey Road Studios di Londra) è uno di questi, musica composta come colonna sonora per l’omonimo film del regista francese Barbet Schroeder (a dire la verità film non proprio imprescindibile, anzi); 13 brani composti nel giro di pochi giorni ma soprattutto fu il primo album senza la presenza di Syd Barret che “aveva abbandonato” il gruppo durante le registrazioni di A Saucerful Of Secrets, questo lascia un pò di straniamento, in effetti da queste tracce sembra che nessuno ne senta una qualche mancanza ma potremmo anche sbagliarci. Alla sua uscita More non ricevette un grosso riscontro sia da parte della critica che del pubblico, probabilmente non fu mai considerato, e non lo è nemmeno oggi, un vero e proprio album dei Pink Floyd, era e resta una musica creata per uno scopo ben preciso, ma è un peccato perchè nonostante alcune tracce trascurabilissime ve ne sono altre “almeno” interessanti ed altre che brillano di una luce propria, più in generale si percepisce che il suono “Pink Floyd” non sia ancora ben definito ma una qualche idea inizierà comunque a svilupparsi ed arriverà a compimento proprio nel loro successivo lavoro in studio, Ummagumma. Ma partiamo dalla prima traccia, Cirrus Minor si apre con una registrazione ambientale della campagna inglese, un cinguettio di uccellini introduce la chitarra acustica e la voce di Gilmour che ci accompagnano in una eterea e lisergica filastrocca per poi verso la metà del brano sfumare dolcemente per lasciare spazio all’organo di Wright capace in poche note di dipingere un’atmosfera che si stacca completamente dalla composizione originale per prendere vita propria (e qui si sente molto della strada che intraprenderanno in seguito, da Ummagumma in poi), a seguire The Nile Song, se non avete mai avuto modo di ascoltarla (vi invidiamo) allora inspirate ben bene, trattenete il respiro e poi sparatevela ad un volume totemico, del vostro impianto non resterà più nulla, idem per le vostre orecchie, un proto-metal-psichedelico granitico, grezzo, di immensa potenza, imperdibile e siamo solo nel 1969; Crying Song è pezzo acustico su un simpatico giro di basso ma niente di più, Up The Khyber invece è un interessante pezzo di jazz modale molto improvvisato sopra la ritmica in levare di Mason e gli accordi al piano di Wright, non è il massimo ma è comunque piacevole ascoltare i Floyd in questa veste; si passa a Green Is The Colour, sempre Gilmour alla voce, sognante e spirituale, flautino a parte (suonato dalla moglie di Mason) è un buon brano, forse datato ma molto Pinkfloydiano, Cymbaline no, Cymbaline è un piccolo diamante, una ballata malinconica quanto scarna eppure a suo modo con un qualcosa di speciale, seguitela fino alla fine e ne rimarrete piacevolmente sorpresi. Party Sequence si può tranquillamente saltare mentre Main Theme è più sperimentale ed acida, ritmica fissa e cupo giro di basso, interessante e poi c’è Ibiza Bar un altra botta di proto-metal-lisergico di “violenza” senza pari. More Blues, i Pink Floyd come non li avete mai sentiti e come non li sentirete più, puro blues al 100% eppure suona tutto un pò straniante, è come essere sdraiati lungo la riva del Mississippi intenti a mangiare un Christmas pudding inglese; le ultime tre tracce dell’album sono trascurabili ma capiamo che in un contesto di “colonna sonora” siano necessari anche pezzi più da “cornice”; e siamo arrivati così alla fine, diciamolo, non è certo un album per cui dovete immediatamente “fiondarvi” presso il vostro più vicino negozio di dischi (??) ma se vi capita, magari il vinile ad un mercatino dell’usato o su Cd, approfittatene, gli album “minori” a volte si rivelano migliori di quelli più blasonati, bisogna solo saperli ascoltare. Da Roots! è tutto e come sempre buon ascolto (qui o qui).
Crowbar – Crowbar
By Simone Rossetti
C’è un grande fiume che attraversa le pianure della Louisiana, la dove tutto è nato, il Mississippi, terra e anima del blues e c’è una città bagnata dalle sue stesse acque, New Orleans, culla del jazz, i Crowbar arrivano proprio da qui e non è un caso; saranno proprio le sue acque scure e limacciose a nutrire questa musica e farne etica esistenziale. Un anima “nera”, da non confondersi con l’immaginario Black/Death, qui la sofferenza e l’alienazione sono fin troppo umane e terrene, sono le storie degli ultimi, di quei dimenticati che la vita lascia scorrere ai margini (se non oltre), sono storie di un sistema che non lascia scelta, devi vincere o altrimenti perdi e se perdi sai già quale sarà il tuo posto. Siamo lontanissimi dalla sfavillio luccicante del quartiere di Bourbon Street, qui la dannazione è vita di tutti i giorni, è reale, è quello che resta nascosto sotto l’ineluttabile e soffocante scorrere di queste acque. Sludge quindi, con la sua estetica fatta di riff pesanti ed opprimenti al limite della saturazione ed una sezione ritmica a scandire il suo lento incedere con pochissime concessioni, ma non solo; se lo stile è tipicamente sludge l’attitudine sarà principalmente hardcore, un’attitudine maledettamente umana. I Crowbar di Kirk Windstein (chitarra e voce) qui con Matt Thomas (chitarra), Todd Strange al basso e Craig Nunenmacher dietro le pelli, siamo nel 1993 e questo è il loro secondo album ma lo si può considerare tranquillamente il primo per aver definito uno stile che poi porteranno avanti senza concessione alcuna, sempre uguali a se stessi (e non è un demerito), sempre a testa alta. Si parte con High Rate Extinticon, riff possenti, la batteria pesta severa mentre la voce di Windstein è greve e lenta “You know you never will be free”; All I Had (I Gave) aumenterà sensibilmente il ritmo, altro pezzo di “denuncia sociale” di intensità notevole ma senza alcuna redenzione, Will That Never Dies è un altro brano d’impatto, i riff si ripetono avvinghiati a se stessi, lo scorrere resta lento e marziale, la voce di Windstein pesa come un macigno su queste vite “I’m spilling all my problems to you”, c’è Fixation aperta con uno scarno giro di basso accompagnato dalle percussioni poi una melma sonica a travolgere tutto, è una storia di dipendenza, eroina ma potrebbe essere una qualsiasi altra umana dipendenza “ My blood is toxic and my veins burn for you”, chiude il lato A No Quarter, cover degli Zepp come non ci si aspetterebbe. Lato B che si apre con Self Inflicted e qui si pesta veramente duro così come nella successiva Negative Pollution mentre Existence Is Punishment tornerà su ritmi asfissianti e monocordi e vale lo stesso per la successiva Holding Nothing, ancora più sofferta e dove la voce di Kirk sembra invocare una pregheira in mezzo alla più reale e totale desolazione “Never did you ever love, Never, Never”; I Have Failed sembra respirare di una qualche speranza ma è solo per un breve istante, poi tutto tornerà a farsi denso e cupo. Diciamolo pure, album di ascolto non facile, non per la complessità dei suoi riff o per particolari strutture armoniche, è il suo ciclico ripetersi sempre uguale a se stesso, crudo, essenziale e con un’amarezza di fondo che non lascia scampo ma che a suo modo sa farsi poesia, sono queste acque che lentamente ed inesorabilmente trascinano sul fondo le vite di tutti. Qualcuno una volta ha detto che il blues “è una musica facile da suonare ma difficile da ascoltare”, ecco, allora qui c’è molto blues, d’altronde la musica del diavolo e questo sludge-core hanno guardato entrambi nelle stesse acque. Da Roots! è tutto e come sempre buon ascolto (qui o qui).