
Count Basie And Dizzy Gillespie – The Gifted Ones
by Simone Rossetti
Avrete capito che qui su Roots! non facciamo distinzione di genere o stili, questo non vuol dire che tutto debba finire in un calderone indistinto, anzi, ogni genere ha una sua dignità e leggibilità, per questo ci piace spaziare fra hardcore, metal, blues, soul, jazz, rock e tutto quello che vi può venire in mente, perchè alla fine, al di là di una facile etichetta, sempre di musica si tratta, seppur con attitudini ed approcci diversi, esigenze diverse, contesti diversi. Abbiamo scelto questo album non a caso, The Gifted Ones a nome Count Basie e Dizzy Gillespie, due musicisti enormi ( rispettivamente al piano ed alla tromba) ma non lo abbiamo certo scelto per questo, il mondo e la storia del jazz in particolare sono pieni di grandissimi musicisti e di grandissimi album nei quali però è facile perdersi, allora perchè! Perchè questo è “diverso”, è jazz ma è quanto mai scarno, cupo, profondamente blues, improvvisazioni limitate al necessario, né una nota di più né una di meno, un suono grezzo, ruvido, reale; album poco (pochissimo) conosciuto, un album che forse non rientrerà fra i capolavori del jazz, ma qui, credeteci, ce n’è tutta l’essenza, tutto l’humus, tutte le radici più “nere”. Pubblicato nel 1977 per la Pablo Records, periodo cruciale per tutta la musica in generale, il jazz era già altrove ed il rock lo avrebbe seguito di lì a poco; Count Basie e Dizzy Gillespie, due leggende del jazz, due icone, eppure qui (non più giovanissimi, due “quasi” vecchietti) in una veste sommessa, molto intima ma di enorme classe ed intensità accompagnati da altri due grandi jazzisti, Ray Brown al basso e Mickey Roker alla batteria; se non siete avvezzi al jazz non vi preoccupate, anzi, meglio, è un album che merita, a suo modo particolare e mai scontato. Nel 1977 il jazz si muoveva su territori già “avanti” oltrepassando l’idea stessa di free jazz e contaminandosi con il funky, il jazz più elettrico, il rock, l’ambient music, niente a che vedere con la vecchia scuola jazz (big band, bebop, hard bop) da cui provenivano sia Basie che Gillespie, ma la cosa affascinante è che in questo album più che un guardare avanti o limitarsi ad una semplice rilettura dei fasti passati si torna ancora più indietro, alle radici più scure del blues e senza paura di sporcarsi le mani. Niente di innovativo si dirà ma è un bel sentire; lasciatevi incantare dalle note notturne iniziali della tromba di Dizzy in St. James Infirmary Blues, insieme c’è solo il contrabbasso di Ray Brown, all’inizio del tema vero e proprio subentreranno anche il piano di Basie e le spazzole di Roker, poi il primo cambio di passo, l’incedere è sicuro e cupo, il basso pesta duro, avvolgente, il solo di Dizzy più che malinconico è proprio triste, poi un secondo cambio di marcia, la ritmica accelera sui colpi della batteria di Roker e finalmente la tromba di Dizzy potrà volare in alto; segue Back to The Land introdotta sempre dalla tromba di Dizzy, uno spiritual “strumentale” pieno di maledetto blues, la prima parte è introduttiva poi il lento crescendo su note altissime, il piano di Basie è quanto mai calmo e rilassato, non deve dimostrare niente a nessuno, non interessa la velocità quanto il colore, la nota “blues”, riprende il tema la tromba di dizzy questa volta con la sordina, un suono strozzato al limite, il brano si indurisce e scheletrizza insieme poi sul finale rallenta fino a spegnersi mestamente. Costantinople è un altro grande blues, poche note ad indicare il tema, semplici ma perfette poi il brano accelera seguendo le note di Gillespie, duro, cattivo, ma il meglio dovrà ancora arrivare, una nuova accelerazione ritmica permetterà alla tromba di spiccare definitivamente il volo, poi un nuovo cambio di passo, questa volta rallentando e lasciando spazio al piano, sempre contenuto, riflessivo, notevole anche il solo di basso che riprenderà il tema lasciando alla tromba di volare ancora per un ultima volta prima di portarlo alla sua conclusione. I tre rimanenti brani You Got It, Follow The Leader e Ow! si spostano su territori più vicini al classico hard bop ma eseguito ad altissima velocità e con buone intuizioni, il brano forse minore è Ow! che nel complesso scorre via senza lasciare il segno. Cosa riescono a fare questi ormai non più giovani quattro ragazzi è veramente grande, grande quanto semplice ed è questo che affascina, un tornare “indietro” anziché cercare soluzioni innovative, come sarebbe stato naturale nel contesto di quegli anni, o ripetere se stessi all’infinito, ma è un “indietro” non superficiale, che scava nel suo linguaggio più “antico”, nelle sue radici più dolorose e sempre con grande maestria e naturalezza. Anche questo è jazz, abbiatene cura e buon ascolto. (qui o qui)