

Carole King – Tapestry
by Simone Rossetti
Ci siamo abituati (o ci stanno abituando) ad un senso della bellezza che non ci appartiene, da quello più becero e siliconato di un qualsiasi format televisivo a quello da titolone in prima pagina del solito “esperto” dopato da psicofarmaci, ma dentro di noi sappiamo bene che il senso della bellezza risiede altrove ed è qualcosa che raramente si mostra e sempre con una certa timidezza, se si è fortunati sarà amore a prima vista, nella maggioranza dei casi sarà un percorso che richiederà più tempo, starà alla nostra capacità e sensibilità riuscire a percepire questo senso e ad accoglierlo; per questo è molto più semplice parlare di un album bello o brutto che sia ma con tutti i suoi pregi e difetti ben in vista piuttosto che quando si tratta di descrivere una “bellezza” autunnale, gentile, solare e malinconica allo stesso tempo. Dovevamo trovare le parole giuste prima di parlarvi di questo album, in caso contrario, ci siamo detti, non ne avremmo fatto di nulla ma eccoci qui. Originaria di Manhattan, New York, Writer del 1970 fu il suo album di debutto al quale seguirà l’anno successivo questo Tapestry (Ode Records/A&M records), album che riscosse un successo mondiale senza precedenti. Fermi un attimo, non stiamo parlando degli U2 o dei Guns N’Roses, in effetti suona quasi strano pensare a tutto questo successo per una musica così intima, raccolta, tutto sommato povera; si parla principalmente di folk cantautorale ma con un’anima profondamente soul, (You Make Me Feel Like) A Natural Woman fu un brano portato al successo da una vera Signora del soul quale era Aretha Franklin ma poi ascoltate questa versione per solo piano e voce e ne resterete incantati, è il suono e la voce di un mondo che chiede solo di essere un posto migliore; lo sappiamo è solo una canzone e le cose vanno sempre diversamente ma non importa, riscalda l’anima quel tanto che basta per crederci. E lasciatevi cullare dalle note agrodolci di So Far Away, un brano dalle atmosfere folk tanto semplice quanto armonicamente perfetto, malinconico, intimo, quanta grazie e classe. C’è Will You Love Me Tomorrow? reso famoso più per le sue “cover” ma qui interpretato in tutta la sua semplicità, senza orpelli, orchestrazioni o appesantimenti vari, tanto di cappello mentre dal sapore più country-blues è Smackwater Jack, ritmata e sostenuta da una voce che sa essere non solo dolce ma anche potente, una maturità vocale e compositiva che trova la perfetta combinazione in It’s Too Late brano “rock” ma dalle forti tinte urban-soul arricchito da un pregevole solo di sax, un brano senza tempo reinterpretato da decine di blasonati artisti ma mai, mai, “nudo” come in questa originale versione; e si passa a Home Again, “I wanna be home again and feeling right” ci racconta Carole in tono confidenziale, un intro di piano, una voce così fragile da sembrare sempre sul punto di spezzarsi eppure salirà verso il cielo fino a placarsi sul finale in un tono nostalgico e malinconico. Emozioni che non sono finite, Beautiful è un altro pezzo entrato (suo malgrado?) nella storia della musica popolare americana, dovrebbe essere registrato come patrimonio dell’umanità, anzi, come un diritto inviolabile per tutti i popoli di questo fottuto mondo, “You’ve got to get every morning with a smile on your face, and show the world alla the love in your heart” e tanto basta; un piano gospel introduce Way Over Yonder un pezzo che profuma di New York dopo un temporale estivo ma qui ci siamo già persi. Se questa musica si chiama soul un motivo ci sarà ed allora ascoltatevi I Feel The Earth Move, piano sostenuto, groove immenso, voce superba, una perfezione non asettica ma umana, con tutte le vittorie (poche) e sconfitte (molte) che la vita nel bene e nel male ci riserva; You’ve Got A Friend, “Now, ain’t it good to know that you’ve got a friend when people can be so cold?”, non potremmo essere più daccordo, un brano che malgrado tutto non ne vuol sapere di rinunciare ad una possibile speranza, non ancora, una gemma tanto semplice quanto di rara intensità, a chiudere questo album spetterà a Tapestry, un grande pezzo nella miglior tradizione “americana”, una visione personale ed intima di un intero mondo “My life has been a tapestry of rich and royal hue, an everlasting vision of the ever-chainging view, a wondrous, wovenmagic in bits of blue and gold,a tapestry to feel and see, impossible to hold”. Se il 1971 può sembrarvi lontano vi diciamo che si, è vero ma lei è sempre lì ieri come oggi, seduta sul bordo della finestra in compagnia del suo gatto mentre una luce autunnale le addolcisce i riccioli biondi ed i lineamenti, non è una questione di tempo (non lo è mai) ma solo di gentilezza. Da Roots! è tutto e come sempre buon ascolto (qui o qui)
Green On Red – Gravity Talks
by Simone Rossetti
Giorni fa stavo rovistando in cantina, che è un pò come rovistare nei cassonetti di indifferenziata del proprio Io, si trova di tutto tranne quello che si cerca, fra questo inutile tutto mi sono tornate in mente due parole, Tucson, Arizona; polvere, stazioni di servizio abbandonate e sonnolenti pomeriggi in veranda a fissare un orizzonte qualsiasi, provate, Tucson, Arizona. C’era qualcosa che mi rimandava spontaneamente a questo luogo, qualcosa dove ero “già stato”, cosa, ma certo! I Green On Red provenivano proprio da Tucson, Arizona, i Green On Red ed il Paisley Underground, i Dream Syndicate, i Rain Parade, i Long Ryders, perchè (ma lo sapete già) non esistono solo album “capolavori” o album “belli ed altri brutti” ma esistono anche album minori che magari non hanno mai avuto una grande attenzione o sponsorizzazione mediatica, piccoli album di nicchia quasi dimenticati ma che malgrado tutto, stagioni, mode e tempi, continuano a brillare di una luce propria, piccole gemme abbandonate fra centinaia di vinili neri (bravi, è il momento di tirare fuori i fazzoletti). Gravity Talks (Slash Records) del 1983 è una di queste gemme, album che arrivò dopo due EP (Two Bibles e l’omonimo Green On Red), il successivo trasferimento a Los Angeles ed un assestamento nella formazione che al momento comprendeva Dan Stuart (voce e chitarra), Chris Cacavas (Hammond chitarra lap steel voce), Jack Waterson (basso) e Alex McNicol (batteria); precisazione dovuta, quando per essere chiari non si può essere chiari, il Paisley Underground più che un “genere” fu un movimento che vide i suoi albori proprio nella West Coast californiana dei primi anni ’80, in linea di massima faceva riferimento al suono di gruppi appartenenti al periodo psichedelico anni ’60 (Byrds fra tutti) ma c’era anche altro, le influenze furono molteplici, dalla country music al folk rurale, dal roots-rock e blues per sconfinare in acidità e dissonanze da jazz session e come un vasetto di spezie ciascuno ne dosava una certa quantità secondo la propria sensibilità ed attitudine. Il suono di Gravity Talks è questo, un misto di country-folk, desert rock e garage speziato di Byrds e Grateful Dead e dove l’Hammond di Cacavas e le armonizzazioni di Stuart faranno il resto. Old Chief, 5 Easy Pieces, Deliverance, Over My Head, Snike Bit, Blue Parade, Brave Generation (e ci fermiamo qui) sono piccole immense gemme senza tempo ma nel caso non vogliamo convincervi del contrario, Gravity Talks non è un album da classifica (non lo fu a suo tempo né potrebbe esserlo oggi) ma fortunatamente la musica è altro e sa farsi altro per regalarci altro. Da Tucson, Arizona, è tutto e come sempre buon ascolto (qui). Roots!