Roots! n.42 agosto 2020 Billie Holiday

Billie Holiday - Billie Holiday

Billie Holiday – Billie Holiday

by Simone Rossetti

Per la serie quando la vita ti regala un dono enorme ma ti toglie tutto il resto. Questo è quello che le ha riservato il destino e credo che al di la dei discorsi, dei fatti di cronaca, di un immenso successo e dei tributi postumi solo lei conoscesse veramente la sua storia e quello che ha passato, come donna e come donna di “colore”; un dono che sembra uno scherzo della natura, eppure eccolo qui, semplice, naturale, a portata di mano, soprattutto non richiesto ma c’è così come c’è anche tutto un resto, tutto il dietro le quinte, quando le luci del palco si spengono e si resta da soli con la propia vita, quella reale, quella fatta di solitudine, interessi, bisogni, cadute e ricadute. “Facile” da raccontare ma difficile da poterlo comprendere pienamente, un’esistenza troppo intima e fragile; se poi volete leggervi la gossip-cronaca della sua vita in rete troverete di tutto e di più, a noi di Roots! questo non interessa, per rispetto. Nata a Philadelphia il 7 aprile del 1915 e morta a New York il 17 luglio del 1959, una vita “vissuta” che ha lasciato dietro di sé ferite e cicatrici mai rimarginate ma parlavamo di un dono e quel dono era la sua voce; oggi sembrano tutte “belle voci”, basta aprire la bocca e mettere un video su qualche “sociale”, la musica “pop” è piena di belle voci tanto da non saper più distinguere, non è così, è tutta (o quasi) aria fritta; la voce di Billie Holiday era diversa, era (ed è) di un altro pianeta (o fin troppo umana) ma non è solo una questione di voce, non è solo una questione puramente tecnica, è l’intensità, il come racconta (e cosa), è la sua fragilità potente, un filo sottilissimo e increspato che sembra spezzarsi in due (letteralmente) da un momento all’altro, sono le sue sfumature prive di “abbellimenti” da studio, è la sua naturalezza quasi infantile, una voce che è soprattutto la sua storia e quella di un popolo. Questo Billie Holiday è un’album del 1954 registrato in due sessioni, la prima nell’aprile del 1952, la  seconda (le ultime tre tracce) nell’aprile del 1954, se vi chiedete del perchè fra la sua discografia abbiamo scelto questo è presto detto, per l’accompagnamento, qui non ci sono orchestrazioni varie, la strumentazione è ridotta al minimo, all’essenziale, e lei è lì, di fronte al microfono (e immaginiamo in tutta la sua solitudine) a cantare per noi. E’ un jazz ovviamente “standard”, siamo ancora nel 1954, e le voci femminili avevano ancora necessità di questo tipo di accompagnamento, più da “intrattenimento”, niente politica, rivendicazioni sociali o altro ma qui è un bel sentire. Nelle sessioni del 1952 oltre a Billie Holiday alla voce troviamo Flip Phillips al sax, Charlie Shavers alla tromba, Oscar Peterson al piano, Barney Kessel alla chitarra, Alvin Stoller alla batteria e Ray Brown e già che ci siamo vi diciamo anche che nelle sessioni del 1954 gli unici cambi riguardano Herb Ellis alla chitarra, Ed Shaughnessy alla batteria e la mancanza del sax di Phillips, ma ora parliamo dell’album. Love For Sale è un classico del jazz a firma Cole Porter, bellissimo l’intro al piano di Peterson al quale si aggiungerà la voce della Holiday, scarna, aspra e dolce insieme, sale e scende fra pause e abissi a noi ignoti, a seguire la più ritmata Moonglow con la tromba di Shavers a fare prima da contrappunto ma che poi se ne andrà in solitudine, infine torna la voce di Billie a portarci verso il finale; Everything I Have Is Yours è affidata alle note malinconiche della chitarra di Kessel, tanta classe, accompagnamento ritmico soft, da piano bar mentre la voce di Bille è stupenda, ruvida, a tratti bassissima e scura per poi risalire con sicurezza, è dolce ma sembra quasi “cattiva”; If  The Moon Turns Green, qui la formazione è al completo, anche Billie sembra più rilassata e trasporta la melodia in su e in giù con una facilità senza pari. C’è il capolavoro di Autumn In New York di Vernon Duke che apre il lato B, anche questo un classico del jazz solo che in questa versione siamo in un altro universo, l’accompagnamento è “di contorno” (bello ma di contorno) ed è sempre la voce di Billie a fare la differenza, qui quasi straziante, roca, sporca eppure sensuale, difficile da spiegare, come se quello che cantasse non fosse quello che in realtà stiamo ascoltando, resta quel senso di amaro in bocca, spaesante, How Deep Is The Ocean è la prima delle tre tracce registrate nel 1954, sono passati due anni precisi e nulla sembra cambiato, tutto scorre magnificamente, la voce di Billie in questo pezzo è anche più bella, più alta, più ruvida e quando sale sembra inasprirsi ancora di più fino a svanire in un soffio (ascoltatevi la seconda parte, da brivido), segue la tiratissima What A Little Moonlight Can Do con la tromba di Shavers che cerca di stare dietro ai piatti di Shaughnessy ed al basso di Brown, anche qui vale quanto detto in precedenza, forse è una mia impressione ma qui la  voce di Billie ha un qualcosa di ancor più amaro ed insondabile; chiude l’album I Cried For You, un altro standard che si lascia ascoltare piacevolmente ma niente di più, e con questo siamo arrivati alla fine. Due considerazioni, giuste o sbagliate che siano, la prima è che questo è un bellissimo album, non c’è solo Billie Holiday ma ci sono anche ottimi musicisti come Oscar Peterson, Ray Brown, Barney Kessel o Herb Ellis, tutta “gente” che sapeva quello che stava facendo, la seconda è che nei due anni che intercorrono fra le due registrazioni Billie Holiday sparirà completamente dalle scene, il perchè non è dato saperlo, tornerà solo per la seconda session del 1954 ma la sua voce sarà sensibilmente diversa, meno pulita, meno nitida, velata da una amarezza “più matura” ma non per questo meno affascinante. Semplicemente immensa. Da Roots! è tutto e come sempre buon ascolto (qui).

Billie Holiday

 

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