

Bauhaus – In The Flat Field
(1980, 4AD)
by Simone Rossetti
Bauhaus, un nome non a caso, un omaggio alle avanguardie artistiche nate sul finire degli anni ’20 nella Weimar pre-guerra, un esperienza vitale conclusasi poi con l’avvento del nazionalsocialismo; siamo quindi nel 1980, i Bauhaus (inglesi nonostante il nome suggerisca il contrario) formatisi nel 1978 avevano alle spalle già tre singoli fra i quali quel Bela Lugosi’s Dead considerato un pò il manifesto post-punk-gothic della scena underground del periodo quando rilasciarono questo In The Flat Field, un capolavoro? Non lo sappiamo e non è importante, c’è però dell’altro, un oltre, la musica è solo un tramite di uno stato dell’arte; meno analitici dei Joy Division ma più tribali, più istintivamente selvaggi, una forma canzone più destrutturata ai limiti di uno sperimentalismo metateatrale. Peter Murphy ne sarà la vera mente ed alter ego, è lui che darà ai Bauhaus uno spazio (nel senso teatrale) fisico e dell’immaginazione, un desiderio di proiettarsi oltre. Ad aprire le danze ci pensa Double Dare, violenta ed ossessiva, la ritmica è propriamente Joy Division (o se preferite tipica di un primissimo post-punk anni ’80) ma con un ampio uso di feedback sulle chitarre al limite dell’implosione mentre sopra a tutto c’è il canto allucinato e drammatico di Murphy, meglio non si potrebbe iniziare, si passa alla titletrack In A Flat Field, ritmo sostenuto, distorsioni a tessere trame apocalittiche ed il crescendo straziante della voce di Murphy di una bellezza malinconica, abissale, un apice oltre il quale sarà difficile andare; A God In An Alcove ha una struttura più Divisioniana, scheletrica, con linee di basso e batteria ben in evidenza fino al crescendo finale per poi ripiegarsi su se stessa ed annullarsi; a seguire la breve Dive, più punk con influenze quasi “disco” (ascoltarsi la sezione ritmica) ed un grande refrain più propriamente dark-wave; si rallenta con la bellissima Spy In The Cab, una litania oscura e glaciale, un vuoto senza possibilità di uscita. Small Talk Stinks apre il lato B, una quasi filastrocca dissonante e disarmonica mentre a riprendere il filo conduttore ci penserà St. Vitus Dance, ritmica selvaggia ed un canto allucinato immerso in un tappeto di distorsioni ed effetti vari al limite del punk più sperimentale; Stigmata Martyr apre con un buon giro di basso ed un grande lavoro sui piatti che ricorda moltissimo i Joy Division poi sarà tutta una discesa in un mondo sotterraneo ed oscuro (ma allo stesso tempo affascinante) dal quale non sarà possibile risalire, a chiudere spetterà alla più sperimentale e straniante Nerves, brano anomalo ma non è solo un brano, è una voce che sembra uscire da chissà quale spettacolo berlinese anni ’30, è magia, è phatos, è illusione, il tutto mentre il sipario cala ed a noi non resta che congedarsi. Cosa sopravvive oggi di questa musica? Nulla, questo vuol dire che tutto è già stato detto e scritto? No, a mancare è però quell’urgenza espressiva e creativa al di fuori dei soliti compromessi e reali necessità (delle tristi e brutte copie ce ne sono fin troppe); restano album come questo e chi malgrado tutto continua a scriverci sopra prima che inevitabilmente finiscano per appartenere ad un oblio. Da Roots! è tutto e come sempre buon ascolto (qui o qui).
Plan 9 – Dealing With The Dead
(1983, Midnight Records)
by Simone Rossetti
Avete presente il film di fantascienza del 1959 Plan 9 From Outer Space (scritto e diretto dal grande regista Ed Wood)? Bene, toglieteci quel From Outer Space e con quello che resterà avrete il nome di questa “strana” e sottovalutata band; in effetti i Plan 9 più che un gruppo vero e proprio erano una specie di comunità dedita ai “vantaggi psichedelici” formatasi sul finire degli anni ’70 (stato di Rhode Island) e capitanata dal folle genio Eric Stumpo (venuto a mancare nel 2019); musica psichedelica quindi ma con forti riferimenti al garage beat anni ’60, un pò stile Fuzztones ma più lisergici e meno acidi; prima però un pò di storia, tanto per inquadrare il periodo, i primi anni ’80 furono segnati oltre che dalla new wave, dal post punk e dalla nascita dell’hardcore anche da un revival della musica garage-beat, una scena, quella del Paisley Underground, che annoverava tra le sue fila diverse band che riscossero anche un discreto successo (successo ovviamente all’interno di un circuito di nicchia), i Plan 9 si spostavano più sul versante psichedelico, con ampio uso di fuzz, tappeti Hammond, una sezione ritmica tipicamente beat e la voce di Eric Stumpo di chiara matrice garage; il risultato fu questo primo album Dealing With The Dead del 1983, sonorità acide, sporche, compositivamente semplici ed al tempo stesso provocanti. Fra le tracce migliori c’è sicuramente l’iniziale I Like Girls, conturbante ed ipnotica, in pieno stile garage, un saliscendi emotivo lisergico di buon impatto ma anche la successiva B-3-11 non è da meno, in White Women si respirano atmosfere più Paisley (che sono anche quelle che preferiamo), pezzo rilassato, sonorità soft che scorrono bene e lasciano il piacere dell’ascolto; I’m Gone ha il tiro giusto per essere un classico, adrenalinica, potente, contorta, c’è la lunga session lisergica di Looking At You cover degli MC5 completamente “stravolta” ma che rende bene l’idea sull’approccio di questi ragazzi, una sensuale It’s One Thing To Say dai sapori black fino al crescendo contagioso di Try To Run o la frizzante Keep On Pushin’ con il suo bel refrain che vi si pianterà ben in testa. Diciamolo chiaramente, i Plan 9 non passeranno alla storia per aver inventato qualcosa di nuovo e forse non passeranno alla storia in ogni caso ma non importa, quello che fanno (parliamo al presente) lo fanno bene, che poi si tratti di revival o spinti da una qualche missione divina per divulgare il verbo lisergico poco male, è musica che fa muovere le chiappe anche se le avete inchiodate sopra a una sedia ed è questo quello che conta. Da Roots! è tutto e come sempre buon ascolto (qui).