

Alice Clark – Alice Clark
(1972, Mainstream Records)
by Simone Rossetti
Dietro ad ogni disco c’è una storia da raccontare, per alcuni non basterebbero intere pagine per altri meno, per altri ancora (ad esempio questo) due righe o poco più ma se tutti meritano di essere raccontati con lo stesso dovuto rispetto (a prescindere) questi ultimi lo meritano ancora di più, perché già oblio. (In ricordo di Alice Clark)
Partiamo dall’artwork, bellissima, un semplice scatto fotografico, quasi rubato, naturale, reale, un volto assorto, pensieroso, forse triste, nome dell’artista/titolo dell’album a riassumere un tutto, alice clark (scritto in minuscolo, noi lo scriveremo con le iniziali in maiuscolo e non ce ne può fregare di meno), a proposito, siamo nel 1972. Di Alice Clark si sa ben poco (1947 circa – 2004), cresciuta a Brooklyn (N.Y.C.), unico album pubblicato a suo nome, unico lascito (oltre ad un paio di singoli sul finire degli anni ’60 fra i quali una carina ma non imprescindibile You Hit Me (Right Where It Hurt Me) che però sarebbe diventata un classico per il Northern soul inglese dopodiché se ne perderanno le tracce, se ne tornò, sembra, nella sua Brooklyn dove (oggi diremmo prematuramente) lasciò questo mondo, aveva 57 anni, a proposito riscontro commerciale dell’album praticamente zero. No non ci stiamo, e se gli arrangiamenti (curati da Ernie Wilkins) non saranno in sè male ma sembrano suonare fin troppo “statici e tronfi” sarà proprio la voce di Alice a fare la differenza, una timbrica ed un senso del groove fra Aretha Franklyn e Gloria Gaynor, bella ed “assorta” proprio come quell’immagine impressa sull’artwork; altra cosa (non da poco), i brani non portano la sua firma, Alice gli interpreta e basta, immaginiamo con quello che ha, la sua voce ed una storia personale. Per correttezza, alcuni di questi oggi suoneranno sicuramente ed inevitabilmente datati ma ce ne sono altri che tanto di cappello e sarà proprio in questi che Alice raggiungerà vette veramente alte; I Keep It Id con il suo cambio di tempo in un refrain che sarà insieme esplosione di gioia e dolore, poche vittorie molte sconfitte, pezzo superbo (e superba Lei), c’è il soul-blues alla Aretha ed Otis Redding di Looking At Life (inutilmente appesantito negli arrangiamenti ma sarà lo stesso un bel sentire), una intensa Don’t Wonder Why di scuola spiritual-gospel (e qui sarebbe bastato solo un Hammond per rendere questo pezzo stratosferico). Maybe This Time ha ritmi più frizzanti, quasi funky dove la voce di Alice salirà e salirà ancora fino ad un bellissimo incresparsi, una splendida Never Did I Stop Loving You (a firma Juanita Fleming) quasi disco music e la cosa “buffa” è che suona ancora moderna, viva, così come l’ariosa Don’t You Care ed una malinconica Hard Hard Promises purtroppo in parte rovinata da una pesantezza orchestrale che non si merita (poi sarà pur sempre una questione di orecchie…ma no cazzo, no). Questo accadeva in un maggio del 1972, di un dopo che sicuramente ci sarà stato e che gli auguriamo sia stato il migliore possibile non sappiamo; è sempre una questione di sensibilità, di armonia, di tirarsi fuori da un luccichio per il quale non siamo pronti e non lo saremo mai, diciamo solo che è la vita in un suo e nostro scorrere. Da Roots! è tutto e come sempre buon ascolto (qui o qui).