
Alexander “Skip” Spence – Oar
(1969, Columbia Records – 1999 reissue Sundazed Records)
by Alessio Impronta
Questa che stiamo per raccontare non è una bella storia. Non è una storia in cui l’eroe con la chitarra si salva dopo aver attraversato mille paludi con alberi dalle foglie dorate ma dai rami pronti a rapire le anime e sabbie mobili nere sotto agli stivali. Questa è una storia in cui un disco si fonde indissolubilmente col suo autore, in un abbraccio perenne, un testamento fatto ancora in vita che eppure riesce in qualche modo a conservare e regalare una stilla di vitalità. Questa è la storia di un disco che è più di un disco, è un documento di uno stato mentale. Qualche giorno fa, ascoltando Nick Drake, altro musicista fantastico e rapito dai sui demoni, mi è tornata in mente la storia di Alexander “Skip” Spence. E allora mi va di scrivere due righe, perchè è bello che anche artisti sconosciuti ai più abbiano il loro giusto tributo. Batterista nel primo disco dei Jefferson Airplane, Takes Off del 1966, era in realtà un cantante e chitarrista: venne scelto da Marty Balin, fondatore dell’Aeroplano, tanto per il suo aspetto, era bello Skip, quanto per la passione musicale che lasciava trasparire da ogni centimetro di pelle. E fece la sua parte, in modo eccellente. Però, non era quello il suo destino. Lasciò la band e mise su i Moby Grape, altro gruppo fantastico…ma ucciso da un produttore scellerato, come in tante altre storie. Lo stesso, peraltro, che stava per massacrare i Jefferson Airplane, Matthew Katz, e che costerà a Kantner e soci anni ed anni di tribunali pur di liberarsene per sempre. Il primo disco, intitolato appunto Moby Grape, del 1967,è una perla da non lasciarsi sfuggire e qui è ancora forte il contributo di Skip. Ma già nel secondo, Wow, dell’anno seguente è praticamente sparito. Ne resta traccia in poche cose ed in un pezzo non pubblicato subito, poi messo in Moby Grape ’69 e che riemergerà anni dopo specialmente nell’interpretazione di Robert Plant, Seeing, un vero e proprio appello disperato (“can’t beat a dream of death today/save me!”) Negli Airplane, tornando un attimo indietro, Spence aveva fatto un incontro che poi si rivelò fatale: quello con l’acido lisergico. Alla festa di matrimonio della prima cantante dei JA, Signe Toly Anderson, partì per “il viaggio” e praticamente non tornò mai più, chiuso in un angolo verso inesistenti spazi sconfinati. Iniziata l’avventura coi Grape, il consumo di droghe e l’abuso di vita fin troppo al limite continuò senza sosta, finchè non arrivò a minacciare dei compagni di band con un’ascia. Venne ricoverato nell’ospedale psichiatrico Bellevue. Ne uscì sei mesi dopo. E siamo in pieno 1969: Spence ha solo 23 anni e già ha tutta una vita addosso, anzi forse due o tre. Prese una moto e, col pigiama dell’ospedale ancora addosso, se ne andò a Nashville ad incidere, tutto da solo, sotto l’ala dell’amico e produttore David Rubinson, questo album in cui canta e suona tutti gli strumenti. Un album che aveva creato e tenuto nella sua mente, senza poter avere una chitarra o neanche un quaderno su cui scrivere. E’ un album drammatico e scarno, un documento di uno stato mentale, come dicevamo sopra, oltre che di creatività artistica. Non è un album di disperazione; o meglio, non solo. E’ anche un disco in cui un essere umano cerca di mettere insieme dei pezzi di se’, dando un senso alla propria realtà. Ci sono melodie accattivanti come l’iniziale Little Hands, seguita da una sorta di oscuro folk, Cripple Creek, che ricorda Fred Neil ma…sbilenco. In realtà tutti i pezzi sono in qualche modo eccentrici, c’è sempre un particolare che li rende non convenzionali, il ritmo, il suono scarno ma in qualche modo intenzionalmente diretto, sincero, realistico. Grey/Afro potrebbe essere una tipica jam rock del periodo, ma è talmente fuori quadro, talmente deviata da essere incomprensibile ed affascinante allo stesso momento. Una ballad come Diana diventa un appello accorato: la musica è quieta, i suoni sono intensi e c’è sempre una deviazione inaspettata dalla melodia che potrebbe essere apparentemente convenzionale, mentre il nostro canta “Oh oh Diana, tears fall like rain / Oh oh Diana I am in pain/This is my heartbeat”. E ci sembra così vero che quello sia il battito del suo cuore malandato e rattoppato. Oppure, Margaret/Tiger Rug “She skates the truth on the ice/ If she wasn’t so daring and dashing
Her lips would be chapped at half the price/It appears I sent you off to treatment/With the tiger by the tail/If he could be free/He wouldn’t have stripes on him, like jail”. Il disco si snoda così, attraverso musiche che sorprendono e straniscono allo stesso tempo e testi geniali e disperati: una sorta di opera-veritè. Pubblicato dalla Columbia Records, non lo comprò praticamente nessuno, vendette mille copie nei primi mesi, collezionando il poco invidiabile record di disco meno venduto nella storia dalla compagnia discografica, ma divenne un disco di culto per gente come Robert Plant, i membri dei R.E.M., Beck ed altri. Un disco poi ripubblicato, con bonus, dalla Sundazed, con maggior successo, stavolta. Riconciliazioni tardive coi compagni dei Moby Grape, negli anni successive, si rivelarono un fiasco e furono la scusa per ulteriori abusi tossici. Seguirono anni di ricoveri ed ulteriori incredibili vicende, come quando venne dichiarato morto dopo un’overdose a San Jose e si risvegliò nella camera mortuaria, all’improvviso, chiedendo un bicchiere d’acqua. Spence finì per strada, un homeless dal passato brillante e dal presente nero e si ammalò gravemente. Robert Plant, venuto a conoscenza delle sue condizioni, lo rintracciò e gli pagò le cure, mettendo su anche un album tributo, con amici musicisti come Tom Waits, Mark Lanegan etc. More Oar tanto per…debito di riconoscenza, quanto per garantirgli una sussistenza. Skip non guarì e non uscì mai da quell’ospedale: ma, in un momento di riconciliazione con la vita, riuscì ad ascoltare il press testing del disco poco prima che uscisse. E morì poche ore dopo, il 16 aprile del 1999, forse con un minimo di leggerezza nel cuore, almeno una volta. Buon ascolto (qui o qui). Roots!.